di Daniele Rocchetti
nel settembre del 2017 papa Francesco lo aveva nominato Nunzio in Israele e delegato apostolico in Gerusalemme e Palestina e ora la nuova destinazione: India. Dunque, dopo poco meno di quattro anni monsignor Leopoldo Girelli, bergamasco di Predore, ordinato sacerdote nel 1978, diplomatico giramondo per la Santa Sede (Camerun, Nuova Zelanda, Stati Uniti, Indonesia, Timor Est, Singapore Malaysia, Brunei e Vietnam e, appunto, in Israele e Palestina) lascia una terra che è al centro sia della vicenda cristiana che dell’attenzione dell’opinione pubblica mondiale.
Al termine del suo mandato, lo abbiamo intervistato per un bilancio di quest’ultimo delicato impegno diplomatico.
Tre anni e mezzo come Nunzio Apostolico in Israele, una terra con due popoli e tre religioni. È possibile tracciare un bilancio?
Il periodo del mio mandato come Nunzio Apostolico in Israele e come Delegato Apostolico per Gerusalemme e la Palestina, pur non lungo, mi ha consentito di cogliere alcuni aspetti critici di questa complessa realtà politica, sociale ed ecclesiale. In Israele, si è assistito al ripetersi delle elezioni politiche, ben quattro nell’arco di poco più di due anni, incluse le prossime del 23 marzo. Se ciò manifesta un solido sistema democratico, è anche sintomo d’instabilità politica e di divisione sociale, che finisce per logorarlo.
Per la Palestina sono stati anni difficili, con l’amministrazione americana del Presidente Trump che ha promosso una politica filo-araba a favore d’Israele ma non filo-palestinese.
A sua volta, la Chiesa in Israele e Palestina ha subito e continua a subire lo sconvolgimento causato dalla pandemia di coronavirus che ha limitato la vita ecclesiale locale e l’ha privata della presenza dei pellegrini, numerosissimi negli anni 2018-2019.
I pellegrinaggi in Terra Santa sono stimolo spirituale e pastorale per i cristiani locali e anche fonte di benessere economico
Pertanto, il bilancio come Nunzio in “una terra con due popoli e tre religioni” è tuttora aperto e non potrebbe essere altrimenti, vista la sua complessità. Non vi può essere altra soluzione che la convivenza pacifica e fraterna, nel nome della fraternità universale, cara a Papa Francesco, e non vi può essere altro metodo per perseguire tale soluzione che il dialogo tra popoli e tra religioni. Nel mio bilancio ci sono soltanto semi di dialogo sparsi in questa terra, ma con l’auspicio che essi diventino frutti.
Cosa resta da fare per attuare pienamente l’accordo con Israele? Quali sono i punti critici ancora in esame? Quali passi avanti sono stati fatti?
L’accordo firmato nel 1994 stabilisce le relazioni diplomatiche con lo Stato d’Israele. Quello del 1997, per il riconoscimento giuridico nello Stato di Israele degli enti ecclesiastici, necessita ancora di passaggi parlamentari per essere legge. Scopi di questi accordi è di garantire la presenza e la missione della Chiesa in Israele. In tale contesto, si sono sviluppate anche trattative per giungere ad una definizione del regime fiscale che concerne gli enti ecclesiastici. I punti critici risiedono nel come trovare un equilibrio tra il diritto dello Stato alla tassazione e il diritto della Chiesa a svolgere la sua missione. Attualmente, è stata espressa una volontà reciproca a concludere i negoziati. Purtroppo, l’instabilità politica e la pandemia non lo consentono ancora.
Nella terra che ha visto nascere il cristianesimo, i cristiani sono una piccola minoranza. Ci può dire i segni di speranza che ha visto in loro?
Nel mio periodo come Nunzio Apostolico è avvenuto il ricambio della leadership di varie comunità cattoliche presenti in Terra Santa: la nomina dell’Arcivescovo Pizzaballa come Patriarca latino e le nomine del nuovo Arcivescovo greco-cattolico di Haifa, del Vescovo greco-cattolico di Gerusalemme e di quello siro-cattolico. Il rinnovamento a capo di dette comunità ecclesiali costituisce un segno di speranza per la loro salvaguardia in Terra Santa e per il loro rilancio.
Inoltre, nel 2019, la Custodia di Terra Santa ha celebrato 800 anni di presenza a rimarcare che, anche se il numero dei cristiani può variare nel corso degli anni, la cristianità vi permane stabilmente. Non solo i luoghi santi, prevalentemente custoditi dai francescani, ne sono i segni storici, ma anche l’apporto delle scuole cristiane, dalle numerose elementari e superiori sparse sul territorio alla università di Betlemme e agli enti accademici in studi biblici di Gerusalemme, ne rappresentano per così dire l’anima viva, poiché trasmettono i valori cristiani nella società israeliana e in quella palestinese. Segno di speranza è quindi anche una certa vivacità ecclesiale e culturale presente in Terra Santa.
Lei ha rappresentato la Chiesa Cattolica in una terra che vede la presenza di molte confessioni cristiane. Quali ricchezze provengono da una sinfonia di Chiese plurali? Quali difficoltà?
Tipico della fede cristiana professata a Gerusalemme è la sua pluralità di confessioni non solo ad extra tra diverse Chiese e denominazioni cristiane ma anche ad intra della Chiesa Cattolica, con i differenti riti.
Questa pluralità che risale all’origine stessa della Chiesa, nella Pentecoste, costituisce una ricchezza di storia, di liturgia, di disciplina e di dottrina, che nella Gerusalemme cristiana, specie nel suo cuore quale è la Basilica del Santo Sepolcro, diventa molteplicità di voci, di colori e di riti. Eppure, c’è unità nella diversità. Quando ogni confessione celebra il suo culto, si distingue dalle altre. Invece, quando ciascun credente, di ogni confessione, venera il medesimo luogo santo della morte e risurrezione, si unisce indistintamente agli altri credenti in Cristo.
Le difficoltà nascono quando le confessioni cristiane, invece di sostenersi a vicenda, vogliono agire come i figli di Zebedeo e sedersi uno alla destra e l’altro alla sinistra del Signore, escludendo gli altri apostoli.
Lei è stato il rappresentante pontificio in uno Stato segnato da un’occupazione che dura oramai da più di cinquant’anni. Sarà possibile vedere un giorno la pace e la giustizia in quella terra?
Me lo auguro, ma la strada della pacificazione appare ancora lunga ed impervia. L’occupazione che dura da cinquant’anni continua tutt’oggi ad attuarsi con nuovi insediamenti ed annessioni. Ad una pace giusta si giunge solo col dialogo e non con la forza. Se si afferma che “power is peace”, si ignora la giustizia nonché la dignità di un altro popolo in nome della sicurezza e della pace.
Dialogo però significa anche realismo e pragmatismo. Non si raggiungerà mai la pace se non si abbandonano posizioni ideologizzate.
I tempi della diplomazia, anche vaticana, sono fatti di pazienza e di attesa, a volte molto lunga. Non così la fatica degli uomini e delle donne. Come conciliare le due cose?
La diplomazia vaticana preferisce la pazienza e l’attesa, anche lunga, perché si prefigge il bene maggiore piuttosto che il male minore, senza però calpestare la dignità umana. Le due cose si conciliano nel discernimento delle situazioni.
Stiamo andando verso i giorni della Settimana Santa e di Pasqua. Lei avrà celebrato sicuramente davanti a quella tomba vuota. Da diplomatico ma ancor più da credente, come pensa sia possibile credere che non la disperazione ma la speranza sia davvero l’ultima parola della storia umana?
Tra speranza e disperazione, come diplomatico risponderei con le parole di Blaise Pascal: “bisogna scegliere tra il vivere come se Dio ci fosse e il vivere come se Dio non ci fosse… Chi scommette sull’esistenza di Dio, se guadagna, guadagna tutto; se perde non perde nulla: bisogna dunque scommettere senza esitare”.
Come credente rispondo con le parole di S. Pietro: “Signore da chi andremo? Tu solo hai parole di vita eterna”.
Paolo VI diceva che esiste certo una “storia della salvezza” ma che in Terrasanta si sperimenta anche una “geografia della salvezza”. In fondo la vicenda cristiana non è un evento astratto ma ha tempi e luoghi precisi. La terra dove lei ha vissuto questi ultimi tre anni in che modo l’ha aiutata a cogliere la differenza cristiana?
In questi anni, spesso ho celebrato e rivissuto la storia della salvezza nei luoghi santi in cui i Vangeli ci rivelano i gesti e le parole di Gesù. Ma è nella quotidianità che avviene l’incontro con la “salvezza”. Al mattino, quando mi alzo dal letto, spesso getto uno sguardo attraverso la finestra della mia stanza verso la città vecchia di Gerusalemme per ritrovare tra tetti e minareti le cupole del Santo Sepolcro e quindi formulo o penso una breve invocazione al Signore. Così, per me, si fondono i tempi e i luoghi della salvezza che il Signore mi offre.
Sto per lasciare la Terra Santa per iniziare una nuova missione in India. Dalla periferia dell’Asia, quale è il Medio-Oriente, ritorno al cuore del continente. In Asia sono nate tutte le principali religioni, anche perché la sua popolazione è per così dire naturalmente religiosa. Risiede nel cuore dell’uomo asiatico un profondo senso religioso.
Durante il Sinodo per l’Asia (1999) i Vescovi hanno fatto notare che “alcuni seguaci delle grandi religioni non hanno difficoltà nell’accettare Gesù come una manifestazione del Divino o dell’Assoluto, ma è difficile per loro di vedere in Gesù la sola manifestazione del Divino”. Qui sta la differenza cristiana, l’unicità di Cristo.
Gli anni trascorsi a Gerusalemme mi hanno aiutato a cogliere questa differenza, immergendomi nel “quinto vangelo” come Papa Paolo VI ha definito la Terra Santa. Ora parto per andare a New Delhi all’incontro col popolo indiano e dir loro che veramente Gesù è il Figlio di Dio, che Lui solo è la manifestazione del Divino.