La vicenda di Almaviva, la più importante azienda italiana di call center, non poteva concludersi in modo peggiore: lo scorso 27 dicembre 1666 lavoratori sono stati licenziati. Dopo mesi di trattative sfibranti, questo è il triste epilogo di uno dei tanti racconti sul mondo del lavoro contemporaneo. Ma ancor più triste è stato leggere commenti sui social e articoli di giornale, fin troppo superficiali, in cui si scaricava la colpa di questo dramma sui lavoratori divisi o sui sindacati per aver fatto la scelta sbagliata. Come a prendere le distanze dall’accaduto (tanto lo sbaglio l’hanno fatto loro!), senza rendersi conto che siamo tutti immersi in una spirale di svalutazione del lavoro e di sgretolamento delle tutele e dei diritti, per cui non possiamo tirarcene fuori senza interrogarci profondamente.
In sintesi la lunga e tormentata storia. A marzo 2016 il governo italiano costituisce un tavolo per la crisi, denunciata già da tempo, del settore dei call center italiani causata dalla concorrenza di paesi italofoni a basso costo (Albania, Romania); a fine maggio si raggiunge un accordo tra Almaviva e sindacati, favorito dal MISE, che sembra sventare una crisi che coinvolgeva più di 3.000 lavoratori. Poi di nuovo l’allarme. Lo scorso ottobre Almaviva ha comunicato la chiusura delle sedi di Roma e Napoli, con la prospettiva di lasciare a casa 2.511 persone – 1.666 nella sede della capitale e 845 nel capoluogo campano. In un comunicato l’azienda spiegava che “negli ultimi quattro anni, con una forza lavoro praticamente invariata, aveva visto diminuire del 50% i propri ricavi”. Dopo settimane di proteste e tentativi di mediazione del governo, sindacati e ministero si sono accordati in extremis, prima della scadenza del 21 dicembre: 3 mesi in più di tempo (coperti da cassa integrazione) per trovare una intesa basata su recupero della produttività e riduzione dei costi, come chiesto dall’azienda: in poche parole abbassamento delle retribuzioni e controllo individuale delle prestazioni e soprattutto, recupero di efficienza e produttività. Le Rsu della sede di Napoli hanno firmato. Quelle di Roma no. E Via alle lettere di licenziamento. Successivamente i sindacati a Roma hanno indetto un referendum con 1065 votanti: i voti favorevoli ad estendere l’accordo dei lavoratori di Napoli a quelli della Capitale sono stati 590 (473 ‘No’ e 2 schede nulle). Ma era troppo tardi. Il giorno dopo Almaviva Contact si è rifiutata di riprendere in mano l’accordo: «Oggi, solo chi non conoscesse la normativa o pensasse di ignorarla potrebbe ritenere di riaprire un procedimento formalmente concluso e sottoscritto dalle parti congiuntamente ai competenti rappresentanti dei Ministeri dello Sviluppo Economico e del Lavoro. La norma, infatti, passati i 75 giorni di procedura volta a ricercare ogni strada possibile per arrivare ad un’intesa, non dà spazio a possibilità di ripensamenti successivi, né consente eventuali integrazioni o modifiche al testo d’accordo» si legge nel comunicato.
Davanti a questo dramma, c’è chi, sostenuto da dichiarazioni di alcuni lavoratori disperati, ha semplicisticamente puntato il dito contro le Rsu che hanno scelto di non piegarsi davanti a condizioni ritenute irricevibili. E chi ha parlato di occasione mancata per i lavoratori romani che non hanno avuto la possibilità di scegliere. Ma di quale libertà stiamo parlando? Di quali opportunità si discute? Della libertà di dire “accetto una situazione che fino ad ora mai mi sarei sognato di considerare, perché sono disperato”? Dell’opportunità di vedersi decurtare uno stipendio già misero oppure di subire un inasprimento delle condizioni lavorative, al limite della decenza? Non mi soffermo sull’ampia letteratura che dimostra quanto penalizzanti siano le condizioni lavorative nei call center, quanto lontani siamo dal poter parlare di lavoro decente per ogni dimensione utile a misurare la qualità della vita lavorativa (benessere psico-fisico, autonomia, sicurezza economica, bisogni di apprezzamento, e tanto altro). Qui è il punto. I lavoratori di Almaviva erano poveri ancor prima di essere licenziati. Chi ha pronunciato il suo No al referendum ha dimostrato che, forse, nonostante la precarizzazione del lavoro e la frantumazione delle relazioni sindacali, si può e si deve esprimere un sentimento comune, sia pur esso un rifiuto alla parte datoriale. Si può e si deve mettere in discussione un sistema perverso, prima di esserne sopraffatti, interrogandosi sul senso del lavoro. Quei 473 No sono il segno tangibile del fatto che la misura è colma. Come nel film “Sette minuti” ispirato a una storia vera, accaduta in Francia, a Yssingeaux, in un’azienda tessile ceduta ad una multinazionale, dove le operaie si dividono prima di firmare l’accordo con la nuova proprietà che chiede di rinunciare a 7 minuti della loro pausa pranzo (che prima era di soli 15). Sette minuti possono bastare a rimettere tutto in discussione, a dividere, oppure ad unire un gruppo di persone che condivide la stessa condizione e la stessa sorte. Perché pranzare, seppure sul posto di lavoro, non vuol dire ingurgitare del cibo, vuol dire riprendere le forze, rigenerarsi (è lecito farlo, col giusto tempo) e perché no, coltivare le relazioni, dedicarsi anche all’altro, al proprio collega che non deve diventare il nemico, “che può rubarmi il posto”, ma la persona con cui posso discutere e confrontarmi.
E adesso quali fronti si apriranno per gli ex dipendenti Almaviva e le loro famiglie? Su questo si misurerà il grado di civiltà del nostro Paese perché la questione, non dimentichiamolo, ci riguarda tutti. Come ha ribadito negli ultimi giorni il presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti, occorre un impegno serio in termini di politiche attive da parte delle istituzioni per rimettere in sesto il tessuto sociale della nostra capitale, fiaccato e scoraggiato da una crisi del lavoro che, ancora una volta, ci sta facendo perdere di vista la dignità della persona.