La nota frase di Churchill – stra-citato in questi mesi, e ci sarà un perché – per cui non bisogna mai sprecare una crisi (Never let a good crisis go to waste) sta lì a dichiarare che per uscire dall’ora più buia non basta superare la pandemia: la posta in gioco è duplice, la vita delle persone e la qualità della vita delle persone e delle comunità nel prossimo futuro. Dopo decenni di uno sviluppo pensato come sola crescita economica (del Pil), ecco allora la grande occasione per un nuovo sviluppo. L’Unione europea – vedi gli Orientamenti politici della presidente von der Leyen – lo traduce attraverso queste coordinate valoriali: una giusta transizione ecologica e digitale, un’economia circolare e inclusiva, un nuovo slancio democratico verso l’interno e verso l’esterno. Semplificando, diremmo: un’Italia più giusta (economia, lavoro, istruzione), più blu (tecnologia), più verde (sostenibilità ambientale). La parola sostenibilità è importante, così come la parola coesione. Nel documento italiano del Recovery plan – il PNRR, il piano nazionale di ripresa e resilienza – la coesione è richiamata in due modi: la coesione sociale assieme alla coesione territoriale. È un passaggio piccolo ma non banale, perché così si riconosce che le comunità, le città, le aree urbane e le zone hanno un grande peso nella vita delle persone. Il contesto conta, insomma.
Tener presente il contesto significa anche riconoscere che gli attori dello sviluppo sono più d’uno. Non ci sono solo lo Stato e gli enti pubblici, anzi, ci sono gli enti del privato sociale, della società civile, imprenditoriale, comunitaria, gli enti ecclesiali. Insomma, si riconosce che una buona parte dello sviluppo (e del destino) delle persone e dei Paesi dipende dalla capacità di generazione urbana o territoriale e quindi dai soggetti che sul territorio esistono e si muovono.
In questo senso proviamo a cogliere un filo tra gli Stati generali svolti a giugno e l’attuale definizione del Recovery plan. È evidente la necessità di dare una linea, un orizzonte, e di coinvolgere tutti, più attori: ascoltare, progettare e fare. L’Italia – effettivamente – ha ora bisogno di un grande progetto di ripartenza. Vedremo se il Governo giallo-rosso sarà in grado di proporlo e perseguirlo, di offrire un orizzonte, di lanciare un grande compito. Perché per praticare un piano così occorre una forte coesione politica, che va verificata. Assieme ad essa occorre anche la capacità di far immaginare un approdo, che nei freddi documenti burocratici non appare e non può apparire.
Noi intanto, dal nostro punto di vista, ci concentriamo su un processo sociale decisivo. Il PNNR riconosce la necessità di rafforzare la rete territoriale dei servizi di istruzione, formazione, lavoro e inclusione sociale. Le politiche attive del lavoro sono dunque poste al centro, sono decisive. Bene. Ma lo sono se esse sono altrettanto accompagnate dalla tutela delle persone. Formare per trovare lavoro è decisivo tanto quanto, nel contempo, vivere, ossia disporre di un reddito o di altre forme di sostegno economico e abitativo. Questo binario, tra empowerment e tutela della persona, necessita di un welfare potente e intelligente.
Per quanto riguarda l’intelligenza, il terzo settore italiano può fornire spunti, risorse, potenzialità e idee per accompagnare questo processo sociale. È un errore pensare che – nel XXI secolo – processi sociali così complessi possano essere gestiti con l’approccio top-down, dall’alto al basso. Occorre legittimare una vera poliarchia,responsabilizzare più livelli di governance, a partire dalle comunità e – appunto – dalla società civile. Se si pensa che un grande piano possa essere praticato senza una grande mobilitazione, ci si sbaglia. Il terzo settore e tutti gli attori dell’economia civile sono degli ottimi compagni di viaggio capaci di mobilitare le forze profonde del Paese, di innovare, di coinvolgere. Dopo il modello individualista, che dagli anni 80 ha dominato la scena sociale, è ora di promuovere e dar forza a paradigmi più solidali e sussidiari, più creativi e più sociali.