“Non voglio vivere una vita che sia altro da un dono radicale”
Di Daniele Rocchetti, delegato nazionale alla Vita cristiana
Cristina Cattaneo e il suo impegno per i naufraghi senza volto
Il 17 novembre scorso padre Paolo Dall’Oglio ha compiuto 66 anni. Sono passati 2672 giorni dal giorno in cui non si hanno più sue notizie. È stato rapito a Raqqa, allora capitale del Califfato in Siria, nel luglio del 2013, dopo essere entrato spontaneamente per un incontro nel palazzo – un tempo del governatorato – dell’Isis. Nessuna rivendicazione, molte fughe di notizie discordanti tra loro: assassinato poco dopo il sequestro, imprigionato e venduto, pronto per l’imminente liberazione. Quello che è certo è che qualunque sia la sorte di abuna Paolo, egli è uno dei circa centomila siriani spariti e di cui da tempo non si sa più nulla. Forse finiti nelle molte fosse comuni ritrovate negli ultimi mesi. E nessuno, a parte i parenti stretti e gli amici vicini, alza la voce per chiederne conto.
La sorella, a nome di tutta la famiglia, in prossimità del compleanno di Paolo ha scritto che sono passati “sette anni lunghi e dolorosi anche se sempre accompagnati dalla consapevolezza che Paolo si sentiva chiamato ad una missione che sentiva profondamente dentro di sé e che come dice lui stesso: ‘Per ragioni che hanno a che vedere con l’impegno della mia vita, questa è una guerra civile che lacera la mia anima. Vorrei fare qualcosa per fermarla… Ma non voglio vivere una vita che sia altro da un dono radicale” (Collera e Luce EMI 2013). Per questo ritengo che la domanda di verità su ciò che è successo sia un diritto ma anche un dovere della comunità nazionale ed internazionale verso di lui, e non solo”.
Nel libro citato, abuna Paolo racconta di un viaggio a Mindanao, una grande isola delle Filippine meridionali, dove il vescovo favoriva in tutti i modi possibili il dialogo con la popolazione musulmana. Visitò il convento carmelitano che si presentava come “polmone contemplativo della diocesi” e dove le suore sopra l’abito classico indossavano la stoffa colorata tradizionale delle donne musulmane del luogo. Negli anni successivi, anni di lotte e tensioni, vennero rapite due volte e l’acuirsi della radicalizzazione portò alla loro dispersione: “Quante volte uomini e donne di dialogo, musulmani e cristiani, dovranno essere emarginati nella propria comunità, perseguitati, forse uccisi, affinché la violenza venga esclusa dalle nostre relazioni e affinché si stabilisca il Regno di Dio?”. È una domanda che resta sospesa e che risulta drammatica anche alla luce della scomparsa di abuna Paolo.
Un uomo che, fino alla fine, ha cercato di custodire la perla preziosa per la sua vita di uomo e di credente: “L’atteggiamento, che tutti ci accomuna, consistente nel comparare per dimostrare la propria superiorità, non mi interessa. Quello che mi appassiona è cercare l’opera di Dio sulle tracce fangose delle strade della storia umana.”
Per questo credo che le parole più giuste per parlare di padre Paolo siano quelle di una sua amica ortodossa, Aboud Kabawat: “Se è morto è morto. Se è vivo allora tornerà indietro. Noi dobbiamo seguire i suoi principi. Amare gli altri, costruire ponti attraversando il confine per la pace e la riconciliazione. Erano queste le sue parole preferite”.