Ospitiamo il racconto dell’esperienza di Silvia Maraone, operatrice di IPSIA Acli, in un campo governativo di Belgrado.
Lo scritto è tratto dal suo blog NellaterradeiCevapi
Belgrado. La temperatura oggi si è alzata rispetto ai -15° delle scorse settimane. La maggior parte dei migranti che da ottobre 2016 affollavano i magazzini abbandonati del terminal doganale dietro la stazione centrale non ha resistito al freddo e alle condizioni inumane nelle quali per mesi ha vissuto e ha accettato la proposta che il governo locale da mesi ha fatto: andate nei campi governativi.
I più di loro in tutti questi mesi di stallo hanno evitato di andare nei centri gestiti dal commissariato per i rifugiati serbi. Alcuni campi sono molto lontani dai confini del nord, il che significa vedere allontanarsi la speranza un giorno di poter passare la soglia dell’UE. Altri ascoltano i trafficanti che dicono loro che registrarsi nei campi serbi significa non poter poi fare richiesta nei paesi Schengen.
La maggior parte di queste persone accampate sul pavimento dei capannoni, senza nulla, nemmeno delle tende, è proveniente dai paesi che hanno meno chance di vedersi riconosciuti come rifugiati. Si tratta perlopiù di uomini soli, pakistani, bengalesi. Anche afgani e iracheni. Pochi i siriani, per loro la più grande possibilità è stata quella di rimanere in Grecia e fare domanda d’asilo da lì.
Dei quasi mille che sino all’inizio dell’inverno preferivano stare nei parchi e nei magazzini abbandonati del centro, in questi ultimi gelidi giorni sono rimasti poco più di 200 persone, gli ultimi irriducibili. Ricevono un solo pasto caldo al giorno da un’organizzazione che distribuiva zuppe calde a Idomeni, in Grecia e vengono visitati da Medici Senza Frontiere che denunciano le terribili condizioni di vita di queste persone. Tra loro anche persone pestate dalla polizia ungherese durante le pratiche non proprio ortodosse di respingimento dai propri confini.
Le ONG locali da Novembre non possono più dare sostegno a coloro i quali non stanno nei campi ufficiali. Una lettera aperta a tutte le organizzazioni operative nella zona della stazione e del parco ha fatto capire che chi avrebbe continuato a distribuire aiuti non avrebbe avuto alcuna possibilità di collaborare ulteriormente col governo e nei centri gestiti formalmente dove di fatto oggi sono ospitate più di 6000 persone, il numero ufficiale di migranti che il Paese gestisce in accordo con l’Unione Europea.
Il capannone si trova dietro la stazione centrale, nel cuore di una capitale europea, in una zona interessata da un progetto di riqualificazione chiamato Waterfront, finanziato dai paesi arabi.
Entrando si viene assalito da un odore fortissimo di plastica bruciata. Un fumo acre colpisce occhi e gola. Si sentono persone tossire. Sotto le coperte grigie militari buttate sul pavimento, dormono delle persone. Attorno a dei piccoli fuochi in cui si bruciano immondizia, bottiglie, copertoni si radunano le persone che fanno bollire l’acqua nelle lattine di birra, per prepararsi il the. Un uomo raccoglie acqua da una canalina di scolo, è neve che si scioglie. Esce e si lava mani, faccia, piedi di fianco a un mucchio di immondizie. Mi chiedo se stia facendo le abluzioni rituali per la preghiera. Un altro uomo cerca di usare un rudimentale pannello solare per usare il telefono, ma non funziona. Un uomo ha una vistosa fasciatura al piede è una stampella, ci dice che è stato picchiato e respinto dalla polizia ungherese. Alcuni pakistani mi offrono un the, mi chiedono da dove vengo e poi commentano Italy good.
Le scritte sui muri chiedono al mondo di non essere abbandonati, che non sono terroristi, ma persone e di aprire le frontiere.
Non credo che il mondo sappia leggere.