Intervista sul tema stimolante del “dopo”
Di Daniele Rocchetti, delegato nazionale alla Vita cristiana
Brunetto Salvarani è un amico teologo che, nella ricerca, ha sempre battuto strade poco calpestate da altri. Eppure si sono rivelate, quasi sempre, feconde per dare autenticità alla vicenda cristiana. Che si trattasse di ecumenismo o di dialogo interreligioso, di Bibbia o di letteratura, di memoria o di educazione alla mondialità, di Guccini o di Tex Willer (tema del suo prossimo libro), il suo andare controcorrente gli ha permesso di intercettare, prima di molti, ciò che si muove nel profondo della cultura contemporanea e di avviare piste, serie e affascinanti, di dialogo e di confronto.
Voglio bene a Brunetto perché ha passato la vita a costruire ponti e ha fatto un lavoro, preziosissimo, di alta divulgazione per rendere accessibile, a tanti, temi e questioni a volte complesse, altre volte dimenticate. Come in questa sua ultima fatica letteraria. “Dopo. Le religioni e l’aldilà”, è il titolo del volume pubblicato da Laterza. Un’esplorazione intrigante (e, alla luce di quanto accaduto negli scorsi mesi, attualissima) su come le religioni si sono confrontate sui temi del dolore, della morte e dell’aldilà.
Caro Brunetto, da cosa nasce un libro come questo? Qual è stata la ragione?
Questo libro esce due anni giusti dopo la mia Teologia per tempi incerti, apparso sempre per Laterza nel 2018, in cui invito a una lettura della Bibbia da intendersi non tanto come libro sacro e dunque intoccabile (la tradizione ebraica sostiene che il libro sacro sporchi le mani…), ma come
grande codice dell’arte, della cultura, dell’ospitalità, dei sentimenti e delle emozioni, e soprattutto come spazio in cui si tengono insieme, nel Primo e nel Nuovo Testamento, tante storie di fragilità umana vissuta e continuamente sperimentata:
la fragilità del patriarca Giacobbe, del sapiente Qohelet, del profeta Giona, fino a quella dello stesso Gesù e della chiesa nascente. Con l’ambizione di rivolgermi non solo agli addetti ai lavori, ma anche a chi, credente, poco o nulla credente, o diversamente credente, senta il bisogno di comprendere il contesto in cui, piaccia o no, siamo immersi.
La tesi di fondo, dunque, era che della Bibbia abbiamo tutte/i bisogno, per sapere chi siamo, da dove veniamo e dove stiamo andando. Dopo è, da questo punto di vista, il seguito naturale della Teologia per tempi incerti, che esce in un’epoca ancor più incerta di quanto potessi mai prevedere quando ho cominciato a riflettere e a raccogliere materiali. Il mio libro ha pure l’ambizione di poter interessare anche chi non vive o non trova un proprio spazio in ambienti religiosi; ma, per altri versi, è – credo – ancor più coraggioso, perché affronta faccia a faccia l’ultimo tabù rimasto sulla scena della nostra cultura postmoderna, la morte.
Della morte non si parla mai volentieri. Certo, non avrei potuto immaginare che il tema sarebbe stato di così drammatica attualità, e non ci sono strategie di marketing dietro l’uscita del libro, ma la mia curiosità e il coraggio di una gloriosa casa editrice di tradizione laica che, da qualche anno, ha scelto di confrontarsi con il Fattore R, come religioni, avendo compreso che se non capiamo le religioni è impossibile capire quanto (e come) sta cambiando il nostro pianeta…
Le religioni attorno al “dopo” hanno costruito il loro impianto dottrinale e la loro organizzazione. Quali sono gli elementi in comune tra di loro? Esiste e dove sta la “differenza” cristiana?
Sono convinto che fra le religioni occidentali (in cui è lecito inserire le cosiddette religioni monoteistiche) e quelle orientali si siano sviluppate visioni diversificate – e quasi speculari – del dolore, della morte e dell’aldilà.
Da una parte, nel cristianesimo e nella cultura occidentale, il morire è stato percepito come un dramma unico, una tragedia che non ha eguali.
La morte è la fine dell’uomo, e anche se il cristianesimo invita a pensare alla risurrezione e alla vita nuova con Cristo oltre la morte, permane immancabilmente nel cristiano un senso di fallimento, di una perdita che produce angoscia e, talvolta, disperazione.
Non si è in grado di sopportare il pensiero della morte, e spesso si è rinviato al fatto che, se ha causato paura a Gesù stesso che ha pregato il Padre, se gli fosse stato possibile, di allontanarne il calice (Lc 22,42), non si vede perché esso non debba spaventare anche i suoi seguaci.
Dal punto di vista orientale, ciò che mancherebbe all’orizzonte cristiano – su tale versante – è una visione a più ampio respiro: nel pensiero del cristianesimo si sarebbe prodotta una simile situazione di sofferenza percependo la morte come male assoluto perché si è dato un eccessivo valore all’individuo, alla persona, fino a sfociare in un antropocentrismo assoluto che tende a sconfinare pericolosamente in un assoluto ego-centrismo (si noti che lo stesso papa Francesco, nell’enciclica del 2015 Laudato si’, parli di un “eccesso di antropocentrismo” nella cultura attuale, al n.115).
Ora, se tutto si concentra sull’uomo, principe del creato, è logico che, nel momento in cui l’esistenza umana subisce uno scacco di così enormi proporzioni, un simile evento venga sentito in maniera tragica, come una catastrofe irreparabile.
Più l’uomo viene enfatizzato come il punto di convergenza di tutto ciò che esiste nell’universo e più la sua scomparsa individuale apparirà come innaturale e drammatica.
Dall’altra, un secondo atteggiamento che il cristiano – ma più propriamente l’uomo occidentale – assume nei confronti della sofferenza e della morte è un comprensibile atteggiamento di rifiuto. La morte non la si può accettare: è un non-senso radicale, anzi, il non-senso per eccellenza, per cui si fa ricorso a stratagemmi in grado in un modo o nell’altro di far sembrare che la morte non esista, o sia appena un incidente fortuito nel corso di una malattia. L’odierna, generalizzata ospedalizzazione della morte, da questo punto di vista, può essere considerata un espediente per eliminarne il mistero. Scrive Edgar Morin: “Il cristianesimo è l’ultima religione di salvezza, l’ultima che sarà la prima, quella che esprimerà con più forza, con più semplicità, con più universalismo, la chiamata all’immortalità individuale, l’odio della morte. Essa sarà determinata unicamente dalla morte: il Cristo illumina ciò che riguarda la morte, vive della morte…”.
Dal troppo al nulla, dalle molte parole all’assordante silenzio. Questa pare essere la parabola della teologia cristiana attorno al tema dell’’aldilà. Un vero e proprio tema male-detto… I “novissimi” sembrano oggi espressioni vuote ai più, specialmente per le giovani generazioni
Sì, è così. In effetti fra gli aspetti più scontati del cristianesimo, e storicamente di maggiore presa popolare, c’è sempre stata la prospettiva di potersi procacciare una vita migliore nell’aldilà.
Anzi, le generazioni meno giovani conservano viva la memoria di una predicazione cristiana quasi totalmente incentrata, a monte, sulle realtà ultime e definitive, e a valle sugli scenari perennemente incombenti sul vissuto quotidiano del post-mortem, detti alla latina Novissimi (il termine ha origine da Siracide 7,40).
In latino, la parola novissimi non si riferisce, come verrebbe da pensare, alle cose più nuove, ma alle cose ultime, quelle finali e definitive.
Così, morte, giudizio, inferno, paradiso, ma anche il purgatorio, che in realtà per il catechismo cattolico tecnicamente non ne fa parte e rappresenta anzi una pietra d’inciampo in chiave ecumenica (le chiese ortodosse, ad esempio, non credono nell’esistenza del purgatorio, e leggono severamente la scelta cattolica di inserirlo fra i possibili esiti del post-mortem), per lunghi secoli, sono stati posti costantemente (e dantescamente) davanti agli occhi e alle menti dei fedeli cristiani come luoghi veri e propri, situati di volta in volta realmente negli abissi sotto terra o in alto, fra le nuvole nei cieli, utilizzati come spauracchi sempre in grado di destare nei devoti pungenti preoccupazioni, sollecitudini e timori di ogni sorta.
Probabilmente anche in ragione di tali paure quotidianamente agitate nella catechesi per i bambini e nelle omelie per i loro genitori, il discorso sui Novissimi ha con il tempo finito per essere screditato, tanto che su di esso oggi sembra regnare il silenzio, un oblio, se non persino una vera e propria rimozione, più o meno voluta e più o meno compresa nella sua portata. Intendiamoci, il fenomeno travalica i confini di quelle che furono in passato le terre cristiane: sono le religioni nel loro complesso, un po’ tutte e un po’ dappertutto, che si trovano oggi in un discreto imbarazzo, quando sono costrette a farlo, a parlare dell’aldilà con qualche cognizione di causa. Evidentemente, si tratta di una questione molto seria, e da affrontare con la dovuta attenzione (e sensibilità).
Ed è indubbio che le generazioni dei più giovani, più o meno religiose o più o meno secolarizzate (ma in ogni caso molto poco religiose e alquanto secolarizzate…),
in larga maggioranza non credono in una qualche previsione di vita-dopo-la-morte, non ci pensano proprio, non la temono, né la sperano, né se ne occupano.
Guardando a diverse analisi sociologiche degli ultimi anni dedicate a misurare la temperatura della fede dei cattolici italiani (operazione complessa, ma tant’è), ciò che emerge è che, mentre la maggior parte dei nostri connazionali crederebbe genericamente in Dio, neppure un quinto di essi confiderebbe nella risurrezione della carne(non proprio una bazzecola, ma un elemento cardine del credo cristiano, dal cosiddetto Simbolo apostolico, “Credo la risurrezione della carne e la vita eterna”, al Simbolo niceno-costantinopolitano, “Aspetto la risurrezione dei morti e la vita del mondo che verrà”).
Nel rispondere sulla questione dell’aldilà, con una certa frequenza gli intervistati accennano alla loro fiducia in una presenza diffusa quanto misteriosa degli angeli; o, semmai, alla probabilità di una futura reincarnazione, espressione introdotta nella cultura occidentale con il fenomeno dello spiritismo e con la fascinazione della svolta a Oriente, come se il loro più autentico desiderio fosse il ricominciare daccapo e vivere altre vite, abbracciando nuove esperienze, più che imboccare la via definitiva per il paradiso. Forse senza neppure immaginare che la reincarnazione in altre esistenze successive, che sarebbe più corretto chiamare ciclo delle rinascite (in sanscrito samsara) – tanto nell’hinduismo quanto nel buddhismo – rappresenta in realtà una vera e propria condanna, mentre la liberazione dal dolore, in quelle antiche e gloriose spiritualità, avviene solo grazie a una lunga disciplina interiore, fino a uscire dal samsara stesso. Sta di fatto che problematiche in passato condivise pacificamente dal senso comune diffuso oggi vengono drasticamente rifiutate, oppure accolte e rielaborate con un misto di disincanto e scetticismo.
Come se l’auspicio famoso formulato da John Lennon nel 1971 nella sua splendida Imagine (“Imagine there’s no heaven/ it’s easy if you try/ no hell below us/ above is only sky”) si fosse pienamente realizzato senza particolari clamori, per la soddisfazione di una parte dell’opinione pubblica, lo sconforto di altri e il disinteresse dei più.
Del resto, ancora oggi l’immaginario con cui l’aldilà viene pensato, quando viene pensato nell’assordante disinteresse della maggioranza dei teologi, è spesso, per lo più, quello dei secoli scorsi, con le sue geografie, i contorni e i contrappassi di matrice dantesca. Un tipo di approccio, annota uno specialista come il sociologo Alessandro Castegnaro, fortemente caratterizzato da contenuti descrittivi particolareggiati e realistici, che ai nostri giorni però appare scarsamente proponibile, in particolare ai più giovani. Probabilmente anche perché le raffigurazioni che esso suggerisce appaiono troppo umane e non accettabili a scatola chiusa da quel tanto di ragione scientifica che ciascuno di noi ha, bene o male, assorbito. Come possono essere verbalizzate senza un tremito, un dubbio, un’incertezza? Tuttavia, esse permangono sullo sfondo delle rappresentazioni mentali, contribuendo a rendere difficile la strutturazione delle credenze.
Il tuo libro compare nelle librerie dopo il tempo, durissimo, del Covid… Che ha riportato al centro l’enigma della morte, questione rimossa dalla coscienza pubblica contemporanea…
Di fronte a un nemico invisibile ma pervasivo e potenzialmente onnipresente, a febbraio, in pochi giorni siamo stati tutti catapultati all’improvviso in una società mondiale del rischio, obbligati a ridefinire le agende e invitati dalle circostanze a rivedere radicalmente il nostro modus vivendi e le nostre priorità, scoprendoci – più di quanto già non sapessimo – indifesi, esposti, smarriti. Sul piano tanto esistenziale e psicologico quanto sociale ed economico. Il contagio massiccio causato dal virus ci ha gettato in un panorama planetario in cui sono riemersi linguaggi sottratti all’immaginario medievale e paure di stampo apocalittico;
ha favorito l’irruzione della morte nelle case e nelle famiglie, come presenza realissima o come spauracchio costantemente incombente;
e, contestualmente, ci ha costretto a ridisegnare passaggi quanto mai delicati quali la gestione del lutto in assenza della salma del defunto e la pietas naturale verso i morenti.
In un quadro del genere, non c’è alcun dubbio che le colonne militari in partenza dalla bergamasca alla ricerca di uno spazio per sistemare le salme affidate loro siano assurte a immagine simbolo della pandemia vissuta nel nostro Paese. Ha giocato un certo ruolo anche la reiterazione mediatizzata della notizia, in un periodo in cui eravamo tutti a casa, piuttosto attoniti davanti agli schermi, televisivi o dei nostri dispositivi. Si è ripetuto, a buon diritto: defunti che se ne sono andati senza una stretta di mano, senza una preghiera, senza poter fruire di una rielaborazione collettiva del lutto. Personalmente, mi chiedo se quanto accaduto non potrebbe risultare un’occasione preziosa per ripensare da capo la nostra ritualità nell’arte, difficile, del congedo (quando dico nostra, alludo sia a quella religiosa sia a quella civile), con l’obiettivo di renderla eloquente per chiese, comunità di fede e società prive di memoria e incapaci di produrre germi di futuro, asserragliati come siamo nel nostro piccolo hic et nunc. Ci ripetiamo: siamo sulla stessa barca, ma in realtà guardiamo con angoscia l’andare alla deriva della nostra personale minuscola zattera di salvataggio… Il fatto è che, di fronte alla morte, ho l’impressione che il discorso pubblico sia sempre più afasico e impotente.
È emblematico il caso del famoso borgo sardo di Porto Cervo, principale centro della Costa Smeralda, privo di cimitero: inaugurato negli anni Sessanta del secolo scorso come spazio di divertimento per eccellenza, non vi si prevede neppure l’eventualità di avere a che fare con la morte e con i morti.
Qui, negli ultimi anni, il monopolio religioso nella cultura delle esequie si va progressivamente erodendo, a favore di una professionalizzazione e una privatizzazione dei cerimoniali inerenti al fine vita, con l’allargamento a macchia d’olio delle case del commiato o funeral-home, mentre sulle tombe la classica simbologia cristiana è di frequente accompagnata o sostituita da altre, provenienti da una generica religiosità naturale.
Il funerale dovrebbe essere il momento in cui i morti evangelizzano quanti rimangono da questa parte; invece, durante i riti di commiato si applaude al defunto, scorrono le sue immagini in video, e ci scopriamo, una volta di più, incapaci di abitare il silenzio, la perdita e il vuoto. Direi che la gestione della morte avrebbe un grande bisogno di un’inedita tradizione, di una nuova e rinnovata ars moriendi di cui oggi non si percepiscono per nulla i lavori in corso. Così, si fugge davanti agli stessi riti e simboli funerari, sostituiti da pratiche sempre più spersonalizzate, prodotte in serie e addolcite dalla rappresentazione kitschdi una falsa personalizzazione: una rappresentazione sempre uguale, rassicurante, autoritaria nel lessico e nei gesti rituali spesso banalmente ripetuti senza riflettervi.
Tu hai spesso sostenuto la necessità di tradurre il linguaggio religioso in una grammatica universale. È possibile anche per un tema come questo? In che modo?
Oggi tutti noi abitiamo in una città complessa e plurale, da tempo non più monoculturale e tanto meno mono-confessionale, piaccia o no; inoltre, viviamo in una città post-secolare, come confermato dalla letteratura sociologica al riguardo. Se questo è il contesto, una teologia pubblica ecumenica è convocata a confrontarsi con la società plurale e, pena l’afonia o, peggio, la perdita della dimensione profetica delle fedi, a elaborare un discorso teologico sui temi sociali in maniera diversa dalla stagione della secolarizzazione senza se e senza ma. Un discorso che accetti il pluralismo non solo de facto, ma anche de iure, come economia divina di salvezza, come luogo da cui ripensare le forme storiche delle religioni (oggi, direi un po’ tutte, in forte crisi). La teologia pubblica ecumenica può aiutare l’abitante della città multiculturale e multireligiosa non riprendendo il modello del multiculturalismo identitario, che postula la creazione di spazi sociali divisi, e nemmeno l’imposizione di un modello assimilativo in cui una mitica e fantomatica identità italiana (al singolare) sia proposta come termine assoluto cui adeguarsi.
Rispetto alle città interculturali, che saranno altre dalle nostre attuali città, del resto, ognuno di noi (autoctoni e immigrati) è straniero, straniero a noi stessi (come scrive Julia Kristeva).
In altri termini, tutti noi siamo chiamati a farci pellegrini e a metterci in viaggio verso un nuovo spazio comune dove ciascuno e tutti, a partire dalle proprie differenze, possano sentirsi a casa e nessuno sia straniero/estraneo. Solo così saranno ricostruiti i legami sociali e la solidarietà che tengono assieme la vita delle/nelle città.
Per poterlo fare è necessario attrezzarsi al dialogo, all’incontro, alla mediazione e alla continua ri-negoziazione di vissuti e significati. Non si tratta – si badi – di fondere i propri orizzonti in un sincretismo omogeneizzante o nell’universo simbolico del più forte, quanto di costruire assieme un nuovo linguaggio plurale e dialogico. Anche sul tema della morte, anche se non sarà facile: detto in una battuta, si tratta di ri-umanizzarla, di ridarle senso, di riempirla di contenuti. Perché “la vita ha senso solo se riesce a trasformare la morte in vita” (R. Madera).
Scandagli una prospettiva affascinante: può darsi un cristianesimo non religioso proponibile all’uomo moderno? In quali direzioni deve andare?
Uno degli obiettivi del mio libro, Dopo, è di denunciare la carenza di riflessione su quella che tradizionalmente viene definita escatologia all’altezza dei tempi, nel quadro di una cultura della postmodernità e per un cristianesimo ormai post-metafisico. Siamo – ritengo – all’inizio di un cammino inedito anche per le diverse religioni, in quello che papa Francesco ama definire un cambio d’epoca, ancor più che un’epoca dicambiamenti.
Tra le piste possibili, è vero, mi affascina l’ipotesi di lavoro suggerita, tre quarti di secolo fa, dal teologo luterano Dietrich Bonhoeffer, che dal luogo di prigionia in cui era stato costretto dal nazismo trovò il coraggio di mettere il dito sulla piaga, inaugurando in tal modo un capitolo inedito nella riflessione cristiana sull’aldilà. Dietro il suo epistolario contenuto in Resistenza e resa, scritto in un momento drammatico della crisi europea del Novecento, affiorano domande radicali che dovremmo fare nostre. Ha ancora senso il cristianesimo in una situazione in cui gli antichi novissimi sembrano assenti? Quale messaggio rimane? Può darsi un cristianesimo non religioso proponibile all’uomo moderno? A ben vedere, siamo nel cuore di un paradosso: a dispetto del fatto che sulla base delle parole e dei gesti di Gesù è nata la religione cristiana, è sempre più evidente che il suo messaggio non propone necessariamente una lettura religiosa della realtà.
Anzi, i vangeli non narrano la fondazione di una nuova religione, ma la generazione di una nuova umanità.
Nell’aldiquà, e non nell’aldilà. Nella fedeltà alla terra, prima ancora che al cielo… Come scriveva lo stesso Bonhoeffer, in una lettera del 30 aprile 1944 rivolta all’amico Bethge: “Per me il discorso sui limiti umani è diventato assolutamente problematico… Io vorrei parlare di Dio non ai limiti, ma al centro, non nelle debolezze, ma nella forza, non dunque in relazione alla morte e alla colpa, ma nella vita e nel bene dell’uomo. Raggiunti i limiti, mi pare meglio tacere e lasciare irrisolto l’irrisolvibile… La Chiesa non sta lì dove vengono meno le capacità umane, ai limiti, ma sta al centro del villaggio”.