Cosa significa oggi fare comunità immersi in questa emergenza inedita, improvvisa e per molti versi surreale? A noi sembra anzitutto accogliere e sostare con le molte domande che questa vicenda pone alle nostre storie personali e alla storia della comunità.
Quindi provare a comporre con mezzi e modi nuovi (e impensabili fino a qualche settimana fa) un nuovo racconto che diventerà la nostra risposta all’appello che la vita ci consegna nella forma di questo virus.
Tra le immagini più convincenti c’è quella di una sorta di nuovo esodo. La carovana è lunga, l’esito del viaggio incerto, nessuna mappa e meta sicuri. Ciò che conta è quello che succede tra chi è prossimo, tra noi vicini di viaggio.
Conta il nostro scegliere di stare assieme nella distanza imposta. Conta l’ostinazione di tessere una trama di comunità privi del piacere di una tisana calda, da bere in cerchio, guardandoci negli occhi, ma determinati a partire ogni volta, con pazienza dall’ascolto non giudicante: com’è oggi, per te, fare comunità? Vivere con la porta chiusa.
Fare comunità “con la porta chiusa” è sentire sulla pelle mancanza di permeabilità tra le case, l’entra-esci dei figli, lo scambio facile di uova o latte; è sentire sottopelle la mancanza di contatto fisico nell’abbraccio di bentornato al vicino che passa con sguardo stanco o alla vicina che racconta un’emozione forte vissuta durante la giornata fuori casa. È faticare ad allinearsi nella rapidità dei cambiamenti esterni e dei movimenti interiori, intimi e poi esteriori, con cui ciascuno familiarizza. È sentire un istintivo timore all’incontro, un ritirarsi per rispettare la distanza sanitaria. È chiedersi spesso – forse troppo spesso… – come si sta. È avere una lente d’ingrandimento sulle priorità e le specificità individuali e familiari. Un condominio normale? Una delle nostre figlie quando ascolta le disposizioni che il presidente rilancia, con un certo rigore grazie alle comunicazioni che arrivano dalla segreteria nazionale di MCF, chiede: praticamente dobbiamo diventare un condominio normale? Ed io mi ritrovo a pensare che normale è una categoria di un’epoca che difficilmente tornerà.
In molti condomini “normali” senza la strana solidarietà che per noi è diventata consuetudine molti anziani o persone fragili avrebbero avuto difficoltà insostenibili.
Alle prese con questo scenario Dario si chiede e ci chiede: cosa significa per noi oggi essere un’alternativa possibile? Come possiamo essere alternativi chiusi nella nostra comunità quando fuori ci sono fatiche, dolori, distanze che facciamo anche fatica a percepire? Di questi giorni che stiamo vivendo forse l’immagine della comunità che mi rimane più impressa è quella del Sudoku, rompicapo che ho scoperto grazie a ciò che ha appassionato in questo tempo “libero” mia figlia.
È un gioco in cui le serie di numeri da 1 a 9 sono organizzate in quadrati all’interno di un grande quadrato di gioco. Alcuni numeri sono dati e gli altri vanno “scovati” ma secondo una logica in cui ciascun numero deve trovare una sua collocazione in relazione sia agli altri numeri presenti all’interno della fila, della riga, del singolo quadrato e dei vari quadrati accostati. Non possono esserci posti vuoti né ripetizioni o sovrapposizioni…nulla è a caso ma tutto risponde ad un suo ordine – dice mia figlia.
Mi è parso che i numeri, come chi vive in comunità, debbano farsi presenti e fare il proprio, che siano strettamente legati all’interno delle proprie famiglie ma anche reciprocamente come singoli in tutti gli incroci possibili; mi è parso che questi incroci siano strettissimi negli effetti che producono su tutto il sistema e sui sottosistemi.
Ovviamente con i numeri è più immediatamente percepibile! Colpisce inoltre il tempo lungo, il numero infinito di prove che necessitano per far quadrare tutto così come in comunità.
L’altra immagine di questi giorni, che mi porterò a lungo, è di aver sperimentato una semplice preghiera insieme nell’attesa del grande mistero di Pasqua con le nostre vicine suore tanto amate (spesso in maniera conflittuale). Padrone di casa disponibili ma anche quelle dell’ultima parola. In questi giorni si evidenzia il nostro destino comune: questo luogo lo abitiamo insieme.
Salvezza e Speranza. Far comunità in questi tempi è come sempre e forse di più opportunità di Salvezza e di Speranza. Salvezza perchè si uniscono le forze, seppur mantenendo le distanze, i pensieri, le idee, le soluzioni, le opportunità, le informazioni: si diluiscono le paure, si potenzia il coraggio, si alleggeriscono i dubbi e si alimentano i desideri. Speranza perché nel ritrovarsi nell’oggi come se fosse ieri uguale a domani, si assapora un senso di disorientamento ai limiti dello psicotico: eppure la comunità che si mostra e si snocciola timidamente davanti le nostre finestre, nelle aie, negli spazi aperti, ti riporta ad una realtà di presenza pur senza la pressione quasi bulimica di una vita fatta di eventi, momenti, partecipazioni, incontri, feste, seminari, convegni, cantieri: tutti imperdibili, tutti unici. E allora la comunità continua a dirci che si può partecipare a questa vita senza finirci sotto.
Mi rimane impressa la frase della prima Omelia di Don Paolo, la prima domenica di quarantena: che sia un tempo di passaggio e non un tempo di pausa; la vicinanza della comunità rende possibile questo passaggio, perchè non siamo in un’apnea di attesa ma in un respiro più lieve di chi rallenta quando raggiunge l’ombra fresca di un albero.
Home Guardare il mondo dal balcone “Fare comunità nell’emergenza Coronavirus ” di Le famiglie della Collina del Barbagianni