Mi è capitato ben due volte, chiacchierando con i miei amici, di definire involontariamente il periodo della pandemia “questo periodo di vacanza” e ogni volta sorridevo di questo lapsus.
Di fatto, non è stato un periodo di vacanza così come viene normalmente concepito, ma un periodo come vuole etimologicamente la parola: uno spazio vuoto da riempire.
Non avrei mai immaginato di poter colmare con cose così nuove eppur così semplici questo tempo sospeso dal lavoro, dalle uscite, dal rumore, dall’ossessione di non dovermi perdere nulla.
Ho assaporato il fatto di poter godere una colazione in terrazza, all’ascolto del cinguettìo degli uccelli anziché del traffico romano che non è solo composto dal rumore del tubo di scappamento, ma anche da clacson e da improperi di guidatori isterici.
Ho assaporato film, articoli e canzoni consigliati dai miei figli adolescenti, chiedendomi come mai eravamo stati sempre noi adulti a suggerire loro le nostre proposte, e rendendomi conto che nella normalità fatichiamo a farci prendere per mano dai nostri ragazzi per farci entrare nel loro mondo.
Ho assaporato la possibilità di passarmi la crema ogni volta che uscivo dalla doccia per guardare il mio corpo che sta invecchiando, con le sue imperfezioni e incancellabili segni, pur essendo un “corpo fortunato” che non mi ha mai abbandonato perché ho sempre goduto di ottima salute.
Ho assaporato la musica ascoltata attraverso le cuffie senza fare null’altro, concentrandomi sui testi o sui ricordi, per provare a vivere quello che i cantanti ci volevano trasmettere o a rivivere quello a cui il ricordo della canzone mi portava, rivedendo vecchie case e luoghi visitati, amici di avventure e amori perduti.
Ho assaporato il pane caldo impastato con le mie mani, scoprendo che si fa prima a farlo in casa che andare al negozio, che pur dista a soli 5 minuti a piedi da casa mia.
Ho assaporato l’idea di riprendere la danza classica, seguendo i tutorial on line sulla mia terrazza/palestra condominiale e sbirciando sulle altre terrazze mi sono consolata che non mi sono arrugginita solo io.
Ho assaporato ogni conversazione avuta al telefono con zie, amiche e conoscenti soli, scoprendo che non ero io a dare sollievo a loro, ma loro compagnia a me: quanti racconti pieni di ironia e autoironia, risate e incredibili confessioni…
Ho assaporato la grigliata di Pasquetta in terrazza, scoprendo dalla badante dell’inquilino del piano di sopra che il legno era migliore della carbonella e barattando alcuni bastoni con qualche cotoletta e salsiccia, rigorosamente attraverso il panaro, il cestino per la spesa calato dal balcone.
Ho assaporato – dopo aver sofferto i tragici bollettini quotidiani del TG – il fatto che accanto al virus malefico, si sia diffuso il virus benefico della solidarietà, scoprendo che in Italia il 40% della popolazione aveva fatto un gesto per il prossimo.
Insomma, sono tutti sapori all’apparenza banali ma bellissimi, capaci di riempire di luce un periodo tragicamente buio.
Eppure, un’ombra c’è stata: quanto più avevo la sensazione di valere come persona, riappropriandomi di una relazione pura con me stessa e con gli altri, tanto più percepivo di dis-valere come lavoratrice.
Lavoro da più di un quarto di secolo nella mia organizzazione e mai come in questi tre mesi mi sono sentita così sola e trasparente. Questa sensazione non è stata tanto dettata dalla crisi economica e dallo spettro della disoccupazione, ma dal fatto che non ci sia mai stato un incontro con la parte datoriale in cui si spiegasse con tempestività, chiarezza e coraggio strategie, obiettivi e prospettive per noi e per l’Associazione.
I lavoratori non sono bulloni di un sistema da allentare, stringere o oliare all’occorrenza: sono persone con testa e cuore e molti di loro hanno anche famiglia.
Spesso ci si chiede quale società lascerà il virus una volta sparito. Forse una società di uomini e donne più consapevoli. Ma I have a dream: che la società del dopo sia popolata di lavoratori e lavoratrici che abbiano la dignità di questi nuovi uomini e donne.