Proseguono le riflessioni e intorno allo smart report curato da Gianluca Budano e David Recchia, in occasione della 70esima Giornata Mondiale della Salute, una ricerca inedita di analisi sugli effetti della pandemia Covid-19 sulle politiche italiane della salute e di welfare.
Dopo l’intervista al Presidente nazionale Anffas, Roberto Speziale, il contributo del ricercatore Valentino Santoni di Secondo Welfare, l’articolo di Ubaldo Pagano , l’approfondimento del Prof. Vincenzo Frusciante e la riflessione dell’on. Paolo Siani, pubblichiamo il documento delle ACLI milanesi e lombarde dal titolo “Il fallimento delle politiche sanitarie lombarde alla prova della pandemia” prima declinazione territoriale sul versante della riflessioni lanciate dallo smart report.
Il fallimento delle politiche sanitarie lombarde alla prova della pandemia
Un po’ di storia:
Porta la firma di una donna, Tina Anselmi, ex staffetta partigiana la Legge 13.12.1978 n. 833 che istituisce il Servizio Sanitario Nazionale con l’introduzione di un sistema universalistico superando il sistema mutualistico che portava alla mancata copertura sanitaria di alcuni strati della popolazione italiana.
La legge riconosceva così il diritto alla salute come diritto universale e dava compimento all’art.32 della Costituzione che prevede la responsabilità dello Stato di garantire la salute del cittadino e della collettività in condizioni di eguaglianza senza nessuna distinzione di condizioni individuali, sociali ed economiche.
Negli anni 90 iniziò il dibattito sulla sostenibilità economica del servizio sanitario e su quali correttivi finanziari apportare. In quegli anni si registra una sempre maggiore esigenza di risorse finanziarie per sostenere il funzionamento del SSN.
In questi anni viene introdotto il sistema del rimborso a prestazione per tutte le strutture sanitarie ovvero il pagamento da parte del Servizio Sanitario Nazionale ad ogni ospedale avviene sulla base della tipologia e del numero delle prestazioni erogate e non sulla base dei costi sostenuti. Tutto ciò porterà a delle crescenti disparità a livello.
Dalla riforma del titolo v della Costituzione ai giorni nostri
La riforma del Titolo V della Costituzione avvenuta con la Legge costituzionale n. 3 del 18 ottobre 2001 – affida la tutela della salute alla legislazione concorrente tra Stato e Regioni, ampliando il ruolo e le competenze delle autonomie locali.
Dal 2001 e nella successive ridefinizioni, lo Stato, d’intesa con le Regioni, indica i LEA (Livelli Essenziali di Assistenza), ovvero le prestazioni minime e i servizi che il Servizio sanitario nazionale (SSN) è tenuto a fornire a tutti i cittadini – gratuitamente o dietro pagamento di una quota di partecipazione (ticket) – che devono essere assicurati da tutte le regioni.
La riforma del Titolo V che – delegando a Regioni e Province autonome l’organizzazione e la gestione dei servizi sanitari – puntava ad un federalismo solidale, ha finito per generare una deriva regionalista, un differente sistema sanitario per ogni Regione dove l’accesso a servizi e prestazioni sanitarie è profondamente diversificato e iniquo.
A fronte di un diritto costituzionale che garantisce “universalità ed equità di accesso a tutte le persone” e alla L. 833/78 che conferma la “globalità di copertura in base alle necessità assistenziali dei cittadini”, i dati smentiscono continuamente i princìpi fondamentali su cui si basa il SSN.
A tutta questa situazione si aggiungono significativi tagli all’impegni di spesa sanitari pari a 37 miliardi di euro negli ultimi dieci anni (1). Il dato dei posti letto risulta significativo: nel 1981 avevamo 530 mila posti letto oggi sono meno di 215 mila.
Sistema sanitario della Regione Lombardia: dalle Asl alle Ats
La Regione Lombardia si è distinta nel panorama nazionale, già a partire dagli ultimi anni 90 del secolo scorso, per aver sviluppato un modello peculiare, caratterizzato da due caposaldi:
- libertà per il cittadino di scegliere l’erogatore e per gli erogatori di intraprendere le attività;
- netta separazione tra funzione di Programmazione/Acquisto/Controllo, affidata alle ASL, e funzione di produzione di servizi, affidata agli erogatori accreditati pubblici (Aziende Ospedaliere – AO) e privati, paritetici e in competizione.
In Lombardia, di fatto si è consolidato un sistema centrato sull’ospedale, con erogatori sia privati, che hanno scelto le materie in cui operare, in progressivo miglioramento, soprattutto agli occhi del cittadino, sia Aziende Ospedaliere pubbliche che, a fronte di una tradizione anche secolare di buona amministrazione e di una eccellente e riconosciuta qualificazione scientifica, hanno migliorato sì i loro standard, ma più lentamente.
La L.R. 23/2015 cd. Riforma Maroni, aveva l’ambizione di ridare slancio ai servizi sanitari e socio-sanitari territoriali, in un’integrazione che partiva dalla creazione di una nuova azienda territoriale, la ASST, Azienda Socio Sanitaria Territoriale che riunisce in sé sia i servizi ospedalieri sia quelli territoriali.
La riforma ha dismesso le (15) ASL (Aziende Sanitarie Locali) e ha creato (8) ATS (Agenzie di Tutela della Salute) distribuite su tutto il territorio Lombardo.
Le ATS sono suddivise in (30) ASST (Aziende Socio Sanitarie Territoriali) che sostituiscono le vecchie Aziende Ospedaliere – AO. Le 30 Aziende Socio Sanitarie Territoriali, con un bacino di circa 400.000 abitanti ciascuna coincidente con un distretto di nuova identificazione “concorrono con tutti gli altri soggetti erogatori del sistema, di diritto pubblico e di diritto privato, all’erogazione dei LEA nella logica della presa in carico della persona”.
La trasformazione delle ASL in ATS/ASST non è stata organica cosicché alcuni compiti e ruoli delle ASL non è chiaro a chi sono stati trasferiti. Questo è uno dei motivi per cui certe attività e competenze, quali quelle di approvvigionamenti dei DPI, durante la pandemia non erano in capo ad una specifica responsabilità.
I distretti perdono la funzione di coordinamento della rete dei servizi e diventano molto grandi.
Accanto alla evidente crisi dei Medici di Medicina Generale (MMG, i medici di Famiglia) e del settore infermieristico si assiste ad un arretramento dei servizi pubblici per le tossicodipendenze, dei Consultori e alle gravi difficoltà della psichiatria oltre all’assenza di una rete reale per il decadimento senile e di un investimento concreto sulle politiche di prevenzione; la collaborazione con i Comuni e la valorizzazione delle comunità locali appare marginalizzata; risulta fortemente penalizzato il ruolo del Terzo Settore come interlocutore delle politiche regionali.
L’aver gradualmente spostato, in questo ultimo ventennio, il tema della salute da questione pubblica a soluzione individuale. Il sistema sanitario è stato costruito intorno al concetto di assistenza centrata sul paziente, ma un’epidemia richiede un cambiamento di prospettiva verso un concetto di assistenza centrata sulla comunità.
- Occorre rilanciare il Servizio Sanitario Nazionale (SSN). Se vogliamo considerare il SSN un bene pubblico essenziale, vanno riconsiderati i rapporti tra centro e periferia. Non possiamo permetterci venti diversi servizi sanitari.
- Occorre investire risorse nel Servizio Sanitario Nazionale (SSN) Da molti anni il SSN è stato definanziato (abbiamo il rapporto tra finanziamento del SSN e PIL tra i più bassi d’Europa).
- Occorre ripensare, proteggere e dare nuova dignità al lavoro dei Medici di Medicina Generale. La medicina di gruppo, opportunamente rafforzata e tutelata, deve diventare il presidio fondamentale a livello territoriale per diagnosticare, curare, prevenire. Una prima azione deve consistere nel programmare un riequilibrio degli organici del personale medico e paramedico, allineandoli alle prescrizioni dell’OMS e agli standard dei Paesi omologhi (3).
- Occorre riscoprire il ruolo dell’Infermiere di comunità. Una figura che possa operare nel territorio, a contatto coi medici, e che possa recarsi al domicilio delle persone, soprattutto anziane e magari non autosufficienti. Il modello della “ospedalizzazione domiciliare” in atto nel trattamento dei pazienti oncologici in fase avanzata può essere uno strumento utile su cui lavorare.
- L’igiene pubblica e i dipartimenti di prevenzione, devono tornare ad una reale e efficace operatività. Non frammentati tra ATS e ASST, ma unitari, con una propria autonomia e dotati di personale adeguato: a loro spetta il compito di cogliere il pericolo, e intervenire rapidamente, tracciando, isolando, proteggendo.
La pandemia in Lombardia
Il sistema sanitario lombardo ha creato – con la riforma attuata – una vasta rete di servizi clinici e ospedalieri.Di fronte alla pandemia gli sforzi iniziali del sistema sanitario regionale si sono concentrati su alcuni obiettivi primari: la ricerca di infezioni è stata focalizzata sulle persone con sintomi (come da raccomandazione nazionale) ma la ricerca di contatti, i test a domicilio, l’assistenza e gli sforzi di monitoraggio sono stati ostacolati dalla rapida esplosione del numero di casi e dall’assenza di una rete di medicina territoriale strutturata.
Sono stati identificati centri COVID-19 dedicati, (talora sradicati da un contesto complesso ma indispensabile di servizi necessari – oltre gli apparati di ventilazione – come è successo per l’Ospedale Covid costruito presso la zona Fiera a Milano).
Il Covid-19 richiede risposte sanitarie differenziate in relazione alle diverse tipologie di pazienti coinvolti dal virus.
- Occorre realizzare un potente sistema di sorveglianza delle infezioni sul territorio. Per raggiungere questo obiettivo occorre rafforzare le reti assistenziali territoriali mediante un processo che può e deve partire dal basso.
- Occorre potenziare il sistema sanitario pubblico: siamo stati abituati per anni, anzi da decenni, a pensare che privato fosse sinonimo di efficienza, qualità, risparmio. Per scoprire che, nell’emergenza, è con l’efficienza e la qualità del pubblico che dobbiamo fare i conti.
- Occorre ripristinare la funzione dei distretti. I Distretti devono tornare a funzionare, tornando a comprendere un ruolo di stimolo e di controllo da parte dei Comuni.
L’incapacità di proteggere la popolazione più fragile è il dato più significativo che ci lascia in eredità la pandemia. Molti di questi soggetti hanno infatti contratto il virus nelle strutture destinate alla loro cura.
È indubbio che tutte le strutture abbiano dedicato energie e impegno ad attuare sistemi di gestione della crisi con limiti strutturali che ne hanno minato l’efficacia: l’impossibilità di riorganizzare la gestione interna degli spazi e del personale, l’inaccessibilità a strumenti e materiali necessari in particolare dei DPI (Dispositivi di Protezione Individuale), la scarsità di personale medico.
Ma risulta di tutta evidenza come la gestione Lombarda delle RSA e delle strutture sociosanitarie sia stata un grave errore di politica sanitaria.
La Regione Lombardia al fine di decongestionare gli ospedali con la Delibera n. 2906 dell’8 marzo 2020 disponeva “l’individuazione da parte delle ATS di strutture autonome dal punto di vista strutturale (…) strutture della rete sociosanitaria (ad esempio RSA) da dedicare all’assistenza a bassa intensità dei pazienti COVID positivi”.
L’aver indicato quei luoghi quando era ormai evidente che gli anziani erano le persone più esposte al rischio di mortalità per infezione da Covid è stata una scelta scellerata.
Ma Regione Lombardia non si è fermata qui e ha emesso un’altra Delibera la n. 3018 dell’30 marzo 2020 che disponeva “in caso di età avanzata – ultra75enni e presenza di situazione di precedente fragilità (..) è opportuno che le cure vengano prestate nella stessa struttura”.
Questa scelta significa ritenere la persona anziana non oggetto di tutela al pari di una persona non anziana.
- Occorre ripensare al modello delle RSA. È lì che il virus ha colpito più duramente. Occorre pensare a soluzioni domiciliari innovative, a comunità più piccole e protette, o a RSA più decongestionate e pronte ad affrontare le emergenze.
L’evento pandemico è stato e lo è ancora un evento inedito e drammatico a cui non solo l’Italia ma l’intero pianeta non era preparato.
Ma l’analisi della storia e dell’evoluzione del Sistema Sanitario Italiano, in particolare di quello Regionale Lombardo ci porta a considerare come le scelte politiche, in particolar modo quelle di politica sanitaria, possano incidere sulla vita e sulla morte delle persone e come le responsabilità di governo rispondano a esigenze del mercato e del profitto che prevalgono su quelle del bene comune.
Questa lezione dovrà servirci per il futuro o avremo repliche ancora più drammatiche non solo da un punto di vista sanitario ma anche dei conseguenti impatti sul sistema economico, del lavoro e sociale. Non dobbiamo commettere l’errore di pensare che la nostra salute dipenda unicamente dalle strutture sanitarie, ma anche dal senso di isolamento sociale che deriverebbe da una eventuale grave e lunga recessione economica.
A cura delle Acli di Milano – www.aclimilano.it