Dal vangelo secondo Giovanni (Gv 10, 1-10)
In quel tempo, Gesù disse: «In verità, in verità io vi dico: chi non entra nel recinto delle pecore dalla porta, ma vi sale da un’altra parte, è un ladro e un brigante. Chi invece entra dalla porta, è pastore delle pecore. Il guardiano gli apre e le pecore ascoltano la sua voce: egli chiama le sue pecore, ciascuna per nome, e le conduce fuori. E quando ha spinto fuori tutte le sue pecore, cammina davanti a esse, e le pecore lo seguono perché conoscono la sua voce. Un estraneo invece non lo seguiranno, ma fuggiranno via da lui, perché non conoscono la voce degli estranei». Gesù disse loro questa similitudine, ma essi non capirono di che cosa parlava loro. Allora Gesù disse loro di nuovo: «In verità, in verità io vi dico: io sono la porta delle pecore. Tutti coloro che sono venuti prima di me, sono ladri e briganti; ma le pecore non li hanno ascoltati. Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvato; entrerà e uscirà e troverà pascolo. Il ladro non viene se non per rubare, uccidere e distruggere; io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza».
“Io sono la porta”
A cura di don Aldo Celli, assistente spirituale delle Acli di Arezzo
Più familiare e commentata l’immagine del pastore, meno quella della porta, con le quali Gesù definisce se stesso.
La porta. In questi lunghi giorni con tante limitazioni e chiusure, l’immagine della porta assume una valenza quasi contraria al suo “normale” significato. Infatti la porta è apertura in una parete che permette di uscire fuori verso la molteplicità degli interessi e degli impegni, e di entrare in un luogo che fa sentire protetti e nel quale qualcuno accoglie.
Insieme alla porta (thyra), il “guardiano”, portiere (thyroros), che appunto ha la funzione di aprire.
Le nostre “case”, cioè noi: persone, famiglie, comunità cristiana, abbiamo “porte” aperte e “portieri” che aprono?
È invalso lo slogan: “Non muri, ma ponti”; accettabile anche: ”muri, ma con porte”.
Nel senso giusto salvaguardare sicurezza, identità, privacy personali; così come l’identità “locale” e nazionale; sempre, però, in un orizzonte grande, universale.
Il coronavirus, che non tiene in conto muri, frontiere, confini (non è “sovranista”), almeno questo dovrebbe avercelo insegnato: il destino di questa nostra umanità è unico, comune.
Illuminante la “città dell’Apocalisse” (21,12-13): “La città è cinta da alte mura con dodici porte … a oriente tre porte, a settentrione tre porte, a mezzogiorno tre porte, a occidente tre porte”.
Una profezia, un ideale, una promessa che ci stanno davanti!
E consolante il paragonarsi di Gesù alla “porta”. È Lui che dà accesso al Regno di Dio, il “passaggio” (“pasqua”) alla comunione con Dio; Lui motiva l’incontro con ogni sorella e fratello; spalanca ad orizzonti universali.
“Porta” sempre aperta a tutti, senza discriminazioni, esclusioni.
“Se uno entra attraverso di me sarà salvato; entrerà e uscirà e troverà pascolo”; cioè troverà vita in pienezza.
Certo è anche richiesta la decisione nostra di entrare. E si entra non solo varcando le porte delle chiese, ma anche vivendo con coerenza i dettami della coscienza, l’accoglienza degli altri, la passione per i bene comune.
“Troverà pascolo”, “vita in abbondanza”, come garantisce il “pastore buono e bello” (kalòs), il quale, non sempre si sottolinea questo aspetto, “spinge fuori dal recinto”. Il verbo greco è ekbàllein=‘cacciare fuori’.
“Spinge fuori, caccia fuori”: non conduce ad un altro recinto, ad altro luogo sicuro; conduce in spazi aperti, a pascoli liberi.
Lo stesso vocabolo greco “aulè”, “recinto”, definisce anche il cortile del tempio. Gesù spinge fuori dalla struttura religiosa di Israele (rappresentata dal tempio); e da una religiosità, che in qualche misura può essere nostra, basata su riti ripetitivi e rassicuranti, senza mettere in relazione con quel Dio che si “adora in spirito e verità”, e senza impegnare a fare della vita un servizio e un dono.