Articolo di: Daniele Rocchetti, responsabile nazionale Vita cristiana Acli
“Non ho avuto occasione di conoscere personalmente il parroco di Bozzolo. Ho però potuto cogliere qualcosa della sua statura di cristiano e di prete, leggendo alcuni suoi libri e numerosi articoli su ‘Adesso’. Don Primo fu profeta coraggioso e obbediente, che fece del Vangelo il cuore del suo ministero. Capace di scrutare i segni dei tempi, condivise le sofferenze e le speranze della gente, amò i poveri, rispettò gli increduli, ricercò e amò i lontani, visse la tolleranza come imitazione dell’agire di Dio. Quello di Mazzolari è un messaggio prezioso anche per l’oggi”. (cardinal Carlo Maria Martini)
La notizia è di questi giorni: il lavoro preliminare all’apertura della causa di beatificazione di don Mazzolari è terminato e dunque il cammino verso gli altari ora può iniziare ufficialmente. Chissà se don Primo sarebbe stato contento.
Fedeltà alla Parola e alla storia
Raccontare don Primo Mazzolari (1890-1959) significa fare i conti con la vicenda di un credente profondamente radicato nella Parola coniugata con l’attenzione ai “segni dei tempi”. In una stagione ecclesiale stagnante, don Primo – lettore raffinato soprattutto di autori francesi come Peguy, Bernanos, Maritain e Mounier – cerca di leggere il Vangelo sine glossa e, nello stesso tempo, attua una continua ricerca sui metodi e lo spirito dell’apostolato attorno a cui ruotano i grandi temi della sua riflessione: l’ecumenismo (siamo negli anni Quaranta!), i “lontani” e il dialogo, i poveri e la rivoluzione cristiana, la pace. Finirà per far ammattire prima i fascisti (vivrà un po’ di tempo in clandestinità), poi i comunisti e, infine, anche i democristiani.
Sembrò anticlericale ai vescovi e al Sant’Uffizio, per la schiettezza del linguaggio e le intuizioni sul modo di essere cristiani, di essere Chiesa in quell’epoca: “Mi dicono ‘prete anticlericale’. Ma il mio anticlericalismo è fatto con il Vangelo in mano: è un tormento, una mia angoscia, una mia colpa battuta sul mio petto, non su quello degli altri”. I suoi scritti e le sue prediche (spesso critiche nei confronti delle “eccessive prudenze”), fondate su un accostamento alle Scritture alla cui luce interpretava i fatti della vita, subirono ripetute sanzioni anche da parte dell’autorità religiosa, ma don Primo accettò quelle condanne “obbedendo in piedi” e riaffermando ogni volta il dovere del cristiano di rinunciare ad ogni calcolato opportunismo per testimoniare il Vangelo, anche a costo di ritrovarsi solo con la propria coscienza.
Le sue battaglie per la pace, nate anche per aver visto con i propri occhi sulle trincee gli orrori della prima guerra mondiale (lui che all’inizio era interventista), mostrarono con acutezza l’inutilità e l’immoralità della guerra. Si oppose duramente all’entrata in guerra dell’Italia nel secondo conflitto mondiale, si batté per la Resistenza incoraggiando i giovani a partecipare, si impegnò, già dal 1940, per il diritto all’obiezione di coscienza.
Nella Risposta ad un aviatore scrive cosi: “Il martire che aveva coscienza di morire per Cristo ha inaugurato il regno dei figli di Dio e dei veri uomini liberi; il soldato che muore, senza sapere perché muore, porta al colmo il regno dei servi“.
Nel 1955 uscì, anonimo, Tu non uccidere, quasi un trattato del pacifismo radicale cristiano: un pacifismo che non concede alcuno spazio ad alcuna forma di violenza: “Cadono, quindi, le distinzioni tra guerre giuste e ingiuste, difensive e preventive, reazionarie e rivoluzionarie. Ogni guerra è fratricidio, oltraggio a Dio e all’uomo […] Per questo noi testimonieremo, finché avremo voce, per la pace cristiana. E quando non avremo più voce, testimonierà il nostro silenzio o la nostra morte, poiché noi cristiani crediamo in una rivoluzione che preferisce il morire al far morire”. Ed ancora “Il cristiano è un ‘uomo di pace’, non un ‘uomo in pace’: fare la pace è la sua vocazione”.
In troppe parrocchie si ha paura dell’intelligenza
Insomma, un uomo libero, un credente appassionato (andate a rileggervi alcuni suoi articoli pubblicati da Adesso, il quindicinale che fondò nel 1949) che ha anticipato i tempi e i temi del Concilio Vaticano II (al quale sarà invitato da Papa Giovanni ma la morte improvvisa non gli permetterà di partecipare) e che ha saputo vedere con lucidità e molto prima di altri le trasformazioni in atto.
Anche a riguardo della parrocchia, la cui crisi, ai suoi occhi, era evidente già allora. Cosa propone per superare questa crisi? Vale la pena rileggere il testo che ha scritto e le proposte di soluzione, di assoluta attualità.
Anzitutto, scrive che è necessario riproporre la povertà evangelica, l’urgente “scelta dei poveri”, secondo la lettera e lo spirito della prima beatitudine evangelica.
Poi insiste nel delineare un nuovo stile dell’essere preti a servizio del popolo di Dio. Don Primo richiama i pastori a cingere anzitutto il grembiule evangelico della lavanda del piedi; ad avere nel cuore i poveri “presenza più che immagine del Signore”; a salvaguardarsi dall’imborghesimento; ad essere poveri nello stile, nella casa, nel tempio; ad essere “plebani”, cioè “gents della plebe”, uno del popolo, in tutto.
E’ da rivedere, secondo il parroco di Bozzolo, il criterio della loro preparazione seminaristica e della loro “distribuzione sul territorio”, tenendo conto che “anche il prete è un uomo” e, come tale, da sostenersi anche sotto il profilo umano, per prevenirlo e metterlo al riparo da stanchezze e frustrazioni. Per questo sarà fautore della comunità presbiterale, preti capaci di vivere insieme.
Infine, sostiene con forza che la parrocchia è soprattutto composta di laici. Ma questi, per “essere nella chiesa, non hanno bisogno di fare i chierichetti”. Che è quanto dire: bisogna riscoprire il carisma della laicità, la ministerialità e missionarietà di tutti i battezzati. “E’ grave pericolo – scrive don Primo – clericalizzare il laicato cattolico… creando un duplicato d’assai scarso rendimento… In troppe parrocchie si ha paura dell’intelligenza, la quale vede con occhi propri, pensa con la testa propria e parla il proprio linguaggio”.
La conclusione dovrebbe essere appesa sugli stipiti delle nostre chiese:
“La Parrocchia rimane la Comunità base della Chiesa, a patto che si faccia più accogliente e più adatta. Bisogna ritrovare il coraggio di porsi in concreto i veri problemi dell’apostolato parrocchiale. Molti temono la discussione. La discussione, nei cuori profondi, anche se vivace e ardita, è sempre una protesta d’amore e un documento di vita. E la Chiesa oggi ha bisogno di gente consapevole, penitente e operosa, fatta così”.
Cosi scriveva don Primo Mazzolari nel lontano 1957.
Sicuri che sia cambiato molto da allora?