Di Daniele Rocchetti, delegato nazionale alla Vita cristiana
Mi ricordo di un colloquio che ho avuto tredici anni fa in America con un giovane pastore francese. C’eravamo posti molto semplicemente la domanda di che cosa volessimo effettivamente fare della nostra vita. Egli disse: vorrei diventare un santo (e credo possibile che lo sia diventato). La cosa a quel tempo mi fece una forte impressione. Tuttavia lo contraddissi e risposi press’a poco: io vorrei imparare a credere.
Questa lettera scritta da Dietrich Bonhoeffer nel carcere di Tegel il 21 luglio del 1944 mi torna in mente ogni volta ascolto il vangelo che racconta di Tommaso. Il discepolo incredulo, quello che vuole toccare, quello a cui non basta il racconto degli amici. Il discepolo che tanto mi assomiglia.
Non ti importa che finiamo male?
Credo che in molti, in questo tempo, ci siamo sentiti come Tommaso. Perché Dio è parso assente o nascosto. È stato un tempo di dolore e di morte, di domande e di grandi interrogazioni, dove, credenti e non credenti, abbiamo attraversato la tempesta e temuto il naufragio. Un’esperienza comune alla condizione umana, condivisa, senza sconti, da donne e uomini di fede. Per usare l’immagine di papa Francesco il mare va attraversato ma il mare non risparmia la burrasca. Come quella notte sul lago di Galilea, così violenta da far dire ai discepoli: “Maestro, non ti importa che finiamo male?”. È l’antico sospetto del serpente: non è per caso che Dio sia geloso dell’uomo e non vuole che egli viva?
Quel sonno tranquillo di Gesù sul cuscino non è l’espressione più chiara che “non gli importa” niente di noi, che non siamo importanti per lui? È la “notte” attraversata anche da donne e uomini di fede. Penso a Teresa di Lisieux, una delle sante che più amo, quando viene provata duramente dalla sofferenza. Ha poco più di vent’anni e la sua malattia non è rapida né indolore. È la malattia di una persona giovane, con il carico della imprevedibilità, e dunque della ingiustizia secondo i tempi dell’uomo. “Si possono scrivere cose bellissime sulla sofferenza. Ma bisogna esserci dentro per sapere”. “Se non avessi avuto la fede, mi sarei uccisa senza esitare”. “Non mi pento di essermi offerta all’Amore… (ma) non avrei mai creduto che fosse possibile soffrire così tanto”. Sono espressioni non di una malata ormai in via di guarigione, ma di una che si sa all’inizio del Calvario. “Se questa è l’agonia, che sarà la morte?”. “Vi assicuro che il calice è pieno fino all’orlo”. Ha ragione il cardinal Ravasi quando alla domanda postagli da Paolo Rodari su cosa i credenti possono imparare dalla vicenda di questi mesi ha risposto così: “Direi che stanno imparando che la fede è anche protesta, alzare la domanda a Dio che fu di Giobbe e di Cristo: “Dove sei? Perché mi hai abbandonato?”
Una lotta che non ti lascia indenne
L’ho sostenuto più volte: la fede non è mai è un’esperienza agevole e spesso, almeno per me, ha avuto i contorni della lotta. Come nel racconto mitico di Genesi 32 che narra del combattimento di un essere misterioso con Giacobbe sul fiume Jabbok. Una storia che è la figura esemplare, dal mio punto di vista, di ogni rapporto con Dio: una lotta dalla quale si esce con un’identità nuova (“non ti chiamerai più Giacobbe ma Israele”) e con un’anca slogata. Come a dire che è una prova che non ti lascia indenne, ti lascia una cicatrice. Dio è altro, è l’altro, è sempre al di là, oltre le nostre esperienze, e l’unico modo per entrare in relazione con Lui, per continuare una relazione con Lui è rimettere sempre in discussione la situazione esistente.
Custodire le domande, fare i conti con il dubbio non è certo negare la fede. Il cui contrario non è il dubbio ma l’indifferenza. Il cui profilo è sempre legato alla ricerca perché, come affermava il cardinal Martini “ciascuno di noi ha in sé un non credente e un credente, che si parlano dentro, che si interrogano a vicenda, che rimandano continuamente domande pungenti e inquietanti l’un l’altro. Il non credente che è in me inquieta il credente che è in me e viceversa”.
Servono occhi di Pasqua. Per cogliere l’inaudita prossimità di Dio
È la stessa prova di Gesù la sera al Getsemani, stretto tra la lotta e l’abbandono, il grido e la fiducia. Mai come in questo tempo, ho sentito vera la parola del padre del bimbo epilettico che si rivolge a Gesù in questo modo: “Credo, aiutami nella mia incredulità” (Mc 9, 24). Ogni giorno la fede si rinnova vincendo il dubbio, accettando di non sapere, decidendo di acconsentire liberamente a una promessa. Servono occhi di Pasqua, capaci di vedere e di comprendere che “l’ora della tempesta e del naufragio, è l’ora della inaudita prossimità di Dio, non della sua lontananza” (Bonhoeffer).
Io auguro a noi occhi di Pasqua
capaci di guardare nella morte fino alla vita
nella colpa fino al perdono,
nella divisione fino all’unità,
nella piaga fino allo splendore,
nell’uomo fino a Dio,
in Dio fino all’uomo,
nell’io fino al tu.
E insieme a questo, tutta la forza della Pasqua!
(Klaus Hemmerle)