In questi giorni si ricorda il Patto di Roma, firmato in una “città aperta” il 9 giugno 1944 ma antedatato al 3 per ricordare l’ultimo giorno di vita di Bruno Buozzi, ucciso dai nazisti ormai in fuga. Il Patto precede e sostiene politicamente il successivo compromesso costituzionale tra le tre grandi componenti della Resistenza italiana: la socialista di Buozzi, la comunista di Giuseppe Di Vittorio, la cristiano-democratica di Achille Grandi. Potremmo dire che il Patto è il padre putativo della Costituzione della Repubblica. Che indicazioni possiamo trarne per l’oggi? Cosa dire a distanza di 75 anni? Limitiamoci ad un paio di considerazioni.
La prima: il patto ricrea una dimensione nazionale. In un’Italia spaccata e tradita, l’unità nazionale del mondo del lavoro è un coagulo di consenso sociale positivo in tutto il territorio. Un riferimento nazionale così, unito negli obiettivi e nelle forme, diventa lo schema da replicare organicamente in tutto il Paese. I sindacati si pongono come difensori di tutti i lavoratori italiani, perché dispongono di una visione nazionale delle cose: le parole, i concetti, gli strumenti elaborati creeranno una cultura del lavoro utile per tutta Italia. Il sindacato protegge allo stesso modo il lavoratore di Agrigento e quello di Bolzano, il contadino quanto l’operaio o il dirigente. Dobbiamo tenere in mente questa natura anche quando abbiamo parlato, in queste settimane, di salario minimo legale: il sistema della contrattazione collettiva tra sindacati dei lavoratori e dei datori di lavoro esaurisce i soggetti di trattativa per tutti i lavoratori italiani. Il ruolo della politica è centrale, ma non sostitutivo. Questa architettura dell’autonomia dei lavoratori italiani ha protetto i lavoratori dai rovesci della politica e ha assicurato in Italia un armonico sviluppo economico, per quanto la povertà assoluta e il lavoro povero stiano mettendo in luce l’esigenza di un qualche correttivo.
La seconda: la dimensione nazionale tiene insieme l’alto e il basso. Il Patto valorizza un modello democratico costruito attraverso il raccordo tra la “base” e il “vertice”, tra le assemblee rappresentative di base e le assemblee rappresentative di vertice, secondo un sistema di deleghe. Oggi – ci sia consentita la divagazione – la base, il “basso”, l’esperienza territoriale sono un soggetto da valorizzare particolarmente. Se si osserva e si lavora dal basso si colgono esperienze vive e vivaci come le buone prassi di comunità, i network e le community che cercano di innovare socialmente la partecipazione e la rappresentanza territoriale. Ripartire dal basso significa valorizzare il patrimonio di conoscenze pratiche e di relazioni sociali di chi opera nel concreto delle situazioni. Agire dal basso significa recuperare una dimensione popolare e non populista, non massificata, non semplificatoria. Per non essere vuoti profeti di futuro, occorre avere i piedi ben saldi a terra e saper stare dove vivono i lavoratori e le loro famiglie, respirare i loro problemi, le loro paure e i loro desideri. Il compito è sempre lo stesso: ascoltare i lavoratori e trasformare in forme sindacali e politiche le aspettative legittime. Non si tratta di fare una rappresentazione sociale della rabbia o del rancore, ma di essere rappresentanti di persone e gruppi, in modo autorevole e contemporaneo.
Il Patto di Roma ci ricorda che la liberazione e la ricostruzione sono state due parti dello stesso movimento, e che l’unità dei lavoratori ne è stata un presupposto importante. Oggi, di fronte alla necessità di una nuova ricostruzione, si riprende a parlare di unità o unitarietà dei lavoratori. Il problema chiama in causa la questione della rappresentanza e dei corpi intermedi, cose non facili da trattare. Ma noi siamo convinti che, dall’alto, un pensiero autorevole che riflette e produce sintesi e, dal basso, la valorizzazione delle esperienze positive possano essere due spinte convergenti per dirci cosa sarà della rappresentanza nell’epoca della globalizzazione e dell’industria 4.0. Giusto pensarci oggi, prima che un algoritmo decida per noi.
Roberto Rossini