A cura di Daniele Rocchetti, delegato nazionale alla Vita Cristiana
Quando ero giovane, mi stupivo nel vedere dei cristiani che, pur facendo riferimento a un Dio d’amore, sprecavano tante energie nel tentativo di giustificare le loro opposizioni. E mi dicevo: per comunicare il Cristo, esiste forse una realtà più trasparente di una vita donata, nella quale, giorno dopo giorno, si concretizza la riconciliazione? Allora ho pensato che era essenziale creare una comunità di uomini decisi a donare tutta la loro vita e che cercano continuamente di riconciliarsi. Nell’estate del 1940 mi sono detto: “La guerra è scoppiata e c’è una grande sofferenza. É il momento di iniziare a realizzare ciò che nel cuore da tempo”. Così, da Ginevra, mi sono messo in viaggio per la Francia. Partito in bicicletta, sono arrivato a Cluny, dove il notaio mi ha indicato una casa in vendita a Taizè. Era allora un villaggio senza strade asfaltate, né telefono, né acqua corrente. Non c’era un prete fin dai tempi della rivoluzione. Quando sono arrivato, sono rimasto meravigliato dall’accoglienza cordiale da parte di alcune persone anziane. Una di esse mi invitò a pranzo e mi disse: “Resti qui, siamo così soli e gli inverni sono tanti lunghi…” E così ho scelto Taizé. Di lì a poco, avendo saputo dove vivevo, alcuni amici mi hanno chiesto di nascondere dei rifugiati che fuggivano dalla parte della Francia che era stata occupata. Sapevo che per creare una comunità non dovevo aver paura di essere presente là dove la prova era più dura.
Così mi disse un giorno frère Roger quando salii, un po’ di anni fa, sulla collina in Borgogna per una lunga intervista.
Una storia straordinaria
Quella vicenda, iniziata nel 1940, è diventata uno dei capitoli più significativi della storia del Novecento religioso europeo. Qualcosa di assolutamente singolare e inedito che ha lasciato il segno nella vita di decine di migliaia di giovani di tutti i continenti. “Communauté de Cluny”, così si chiamava all’inizio: una comunità monastica maschile, la prima in campo riformato, che nel corso degli anni ha maturato e consolidato la sua vocazione ecumenica rendendo visibile due grandi aspirazioni: camminare nella vita interiore attraverso la preghiera personale e la bellezza della preghiera comune e assumere delle responsabilità per rendere la terra più abitabile.
Uno straordinario leader: Roger Schutz
Una storia certo legata al carisma, unico, del suo fondatore, Roger Schutz, pastore della Chiesa Riformata, “una personalità fuori dal comune, che attrae senza volerlo” (disse di lui Olivier Clément), che ha saputo radunare attorno a se, sin dagli inizi, in un progetto di vita comunitaria, un gruppo di giovani desiderosi di essere “una parabola della comunità fraterna e dell’unità umana che non è possibile che in Cristo”.
Una storia complessa, descritta e raccontata in modo magnifico da Silvia Scatena in un testo bellissimo, assolutamente da leggere per quanti hanno incrociato e amato la comunità posta nel villaggio borgognone, non lontano da Cluny (Taizè.Una parabola di unità. Storia della comunità dalleorigini al concilio dei giovani. Il Mulino).
Scatena, docente di Storia contemporanea all’Università di Modena e Reggio Emilia e collaboratrice della Fondazione per le scienze religiose di Bologna, in un libro di più di 800 pagine, ricchissimo di documentazione, accurato e rigoroso, riesce in modo efficace a restituire il respiro di una vicenda, più travagliata di quello che appariva ai molti che salivano.
Sia per le differenze interne alla comunità (il vero teologo della quale, Max Thurian, compagno di vita di frere Roger, sarà ordinato prete cattolico dal cardinal Ursi di Napoli il 3 maggio del 1987 e la notizia sarà appresa solamente ex post dal priore e dalla comunità) sia per il contesto ecclesiale esterno, segnato, almeno per i primi decenni, da una forte ostilità tra le chiese cristiane.
“Storia della comunità dalle origini al Concilio dei Giovani”, è il sottotitolo di questo prezioso volume. Un arco temporale di poco più di trent’anni che racconta il coraggio e la tenacia di frère Roger e della comunità nell’affrontare il lungo inverno ecumenico, nel sopportare il sospetto che gravava su di loro da parte di entrambe le confessioni, sia protestante che cattolica. Confessioni incapaci, almeno fino alla fine degli anni Sessanta, di comprendere ciò che frère Roger e Max Thurian scrivevano già in un articolo del 1951: “Bisogna desiderare che un cattolico ritrovi il Cristo in ciò che vi è di meglio nella sua chiesa e che un riformato faccia altrettanto nella sua.”
Un grande amico: papa Giovanni
Il libro narra l’amicizia della comunità con papa Giovanni, il cui nome, nel mio ultimo incontro con frère Roger l’anno prima della morte, era da lui continuamente evocato. Mostra la cura, sin dagli inizi, per la vita interiore e la passione per la storia che sempre caratterizzerà la comunità. Lotta attiva e contemplazione era il leit motiv degli anni sessanta e settanta che nella vita di frère Roger è stato tradotta subito nell’impegno a difesa degli ebrei che venivano accolti appena insediato a Taizé.
Poi nel sostegno ai preti operai, l’amicizia con i piccoli fratelli e le piccole sorelle di Charles de Foucauld, la vicinanza nelle bidonville algerine come in quelle africane. Fratelli capaci di stare dentro le fratture della storia e del mondo: dalla Francia del 1940 all’Algeria in guerra, da una Berlino divisa al Brasile della dittatura dei militari, dai ghetti neri di Chicago al Sudafrica dell’apartheid.
Una grande avventura: il Concilio Vaticano II
Parecchio spazio viene dato all’avventura del Concilio Vaticano II: l’amicizia nell’appartamento vicino a Piazza Venezia con i vescovi latino americani (Helder Camara fra tutti), la relazione con Paolo VI, l’arrivo sulla collina dei primi fratelli cattolici, la tessitura ecumenica e i fecondi rapporti con il mondo ortodosso.
La convinzione a partire dalla fine degli anni Settata che la riconciliazione è il nuovo nome della vocazione ecumenica che la comunità era chiamata dal suo priore a trasfigurare. “Come potranno riunirsi i cristiani? Per incontrare Dio assieme non c’è altra strada che quella della riconciliazione”.
La liturgia e la musica
Molte pagine sono spese a raccontare la cura liturgica, la collaborazione tra frére Robert di Taizè (Robert Giscard) e il compositore francese Jacques Berthier, organista della chiesa di Saint-Ignace a Parigi. Un intreccio fecondo che permetterà a Taizè di sostituire così progressivamente il proprio ufficio monastico, con il relativo repertorio salmodico e innologico, con una nuova forma orandi: una preghiera essenzialmente cantata le cui strutture ripetitive – canoni, ostinato, sequenze litaniche – facilmente memorizzabili e adattabili alla metrica di qualunque lingua avrebbero offerto una koiné liturgica unica a più generazioni.
Infine, particolare attenzione è posta sull’esito di una vicenda di credenti che, nel corso degli anni, hanno imparato a custodire la differenza della propria fede e, insieme, a prendere il meglio dalle altre confessioni cristiane. Frère Roger parlava spesso di sua nonna che “nella sua casa, sotto i bombardamenti, ha accolto quelli che fuggivano, dei vecchi, dei bambini, delle donne che partorivano. In questo periodo in cui gli europei si uccidevano fra loro, essa che era di antico ceppo protestante, non ha potuto più sopportare le divisioni dei cristiani. Mia nonna è andata allora in una chiesa cattolica per scoprirvi un’altra forte realtà. In questo modo essa ha riconciliato in sé stessa due origini, cattolica e protestante. Ma essa ha saputo non divenire per questo un simbolo di rinnegamento per la sua famiglia.”
Una comunità sempre viva. La dinamica del provvisorio
La scorsa estate sono salito a Taizè con Renata e Benedetta insieme ad alcune coppie di amici con figli. Pochi giorni trascorsi sono bastati, anche a chi saliva la prima volta, per rendersi conto dello spessore spirituale di una realtà apparentemente leggera dal punto di vista della “struttura” e dell’organizzazione. Sono sempre curioso di scoprire se questa vicenda spirituale, per me davvero importante, non sia divenuta, nel tempo, consunta e logora. Abbiamo trovato invece e di nuovo una comunità viva, uomini appassionati del Vangelo, non troppo preoccupati delle loro sorti, aperti ancora, a distanza di più di settantacinque anni dalla fondazione, a quella che chiamano la “dinamica del provvisorio”.
Abbiamo incontrato giovani, da ogni parte del mondo, capaci di custodire, durante le tre liturgie quotidiane, un silenzio intenso, non artificiale. Proprio durante le liturgie si coglie il valore di Taizé: un’esperienza spirituale profonda, capace di mettere al centro la contemplazione pasquale di Gesù, che è riuscita a diventare anche un modo di celebrare, un modo di cantare, un modo di pregare, un modo di rappresentare.
Aveva ragione Giovanni Paolo II, salito anche lui, nell’ottobre del 1986, a pregare e a incontrare la comunità: “Si passa a Taizé come si passa accanto a una fonte. Il viaggiatore si ferma, si disseta e continua il cammino.”