A cura di Daniele Rocchetti, delegato nazionale alla Vita Cristiana
Forse aveva ragione Bauman quando scriveva: “Il vero problema dell’attuale stato della nostra civiltà è che abbiamo smesso di farci delle domande. Astenerci dal porre certi problemi è molto più grave di non riuscire a rispondere alle questioni già ufficialmente sul tappeto; mentre porci domande sbagliate troppo spesso ci impedisce di guardare ai problemi davvero importanti. Il prezzo del silenzio viene pagato con la dura moneta delle umane sofferenze. Porsi le questioni giuste è ciò che, dopotutto, fa la differenza tra l’affidarsi al fato e perseguire una destinazione, tra la deriva e il viaggio. Mettere in discussione le premesse apparentemente indiscutibili del nostro modo di vivere può essere considerato il più urgente dei servizi che dobbiamo svolgere per noi stessi e per gli altri”.
Per questo abbiamo bisogno di letture “divergenti” che aiutino – anche le nostre comunità ecclesiali – a guardare in profondità, a mettere in discussione l’ovvio, a chiedere fino a che punto la fede in Gesù Cristo è passione per l’uomo e per la storia.
Lo facciamo con un testimone privilegiato: Leonardo Boff, uno dei padri della teologia della liberazione. Boff, nipote di immigrati veneti giunti in Brasile alla fine del XVIII secolo per installarsi nel Rio Grande do Sul, è entrato nell’Ordine dei frati francescani minori nel 1959. Emessa la professione solenne e diventato sacerdote, studia negli Stati Uniti,in Belgio e in Germania, dove consegue il dottorato di filosofia e teologia presso l’Università di Monaco (uno dei due relatori era Joseph Ratzinger).
Tornato in Brasile, Boff occupa la cattedrale di teologia sistematica ed ecumenica a Petropolis, è direttore di numerose riviste teologiche e consulente della Conferenza episcopale brasiliana. La sua azione teologica, unita a quella di Gustavo Gutierrez, sostanzia la teologia della liberazione.
Ma l’uscita del libro “Chiesa: carisma e potere” gli procura un confronto serrato con la Congregazione per la Dottrina della Fede che gli impone, per un anno, un “silenzio ossequioso”. Dopo qualche anno, Leonardo Boff abbandona l’Ordine dei francescani. Ma non il suo impegno nelle comunità di base brasiliane e la sua attività di teologo, docente e scrittore. Nel 1993 è nominato docente di etica, filosofia della religione ed ecologia presso l’Università Statale di Rio de Janeiro.
Attualmente vive a Jardim Araras, una riserva ecologica a Petropolis, insieme a Marcia Maria Monteiro de Miranda e ha sei bambini adottati.
Cosa vuol dire guardare e leggere la storia con gli occhi di chi fa più fatica, con gli occhi dei poveri?
Significa cambiare lo scenario. Perché ogni punto di vista è a partire da un punto. Da quello che scegliamo, dipende il nostro sguardo e il nostro giudizio. I poveri sono la stragrande parte dell’umanità, sono la maggioranza della popolazione. Eppure, nonostante questo, non hanno voce: sono socialmente invisibili, non contano, sono considerati uno zero economico perché producono poco e consumano poco. Nella contabilità del sistema non hanno un peso.
Qual è stata l’intuizione della teologia della liberazione? È stata quella di sostenere che coloro che sono ai margini, che vivono nella periferia, coloro che secondo il giudizio del mondo sono non persone, sono, invece, l’apparizione di Cristo crocefisso nella storia, sono coloro che hanno la centralità nel Vangelo, i primi destinatari del messaggio di Gesù. Vedere la verità evangelica a partire dai poveri significa vedere a partire dalla stragrande parte della popolazione.
E questo cambia radicalmente il paesaggio sociale. Occorre conoscere la vita dei poveri nelle favelas, nelle borgate: non funziona niente: non c’è né Stato né la scuola, né parrocchia, né polizia. Uomini e donne, vecchi e bambini abbandonati a se stessi. Sopravvivono in mezzo a questa immensa via crucis di dolore e di passione. Vedere il mondo a partire da loro significa dire anzitutto che questo non può essere, bisogna cambiare questa realtà. È troppo disumana, troppo ingiusta. Ti fa star male.
Soprattutto quando incontri il dolore innocente: i bambini che stendono le mani, il dramma, diffuso, della prostituzione infantile, lo sfascio di molte famiglie. Tutto questo provoca l’ira sacra, come quella dei profeti biblici.
Da questo sguardo sul mondo è nata la teologia della liberazione?
Sì! La povertà se analizzata in profondità è sempre un’ingiustizia e ogni ingiustizia è peccato. Sociale e storico insieme. Perché la povertà non è naturale, non è qualcosa che Dio vuole: è stata prodotta dentro relazioni storiche umane la cui conseguenza ha generato impoverimento. Non sono poveri, sono impoveriti, sono oppressi. E contro l’oppressione vale la liberazione.
Noi, alla fine degli anni sessanta, siamo partiti da una domanda, che rimane aperta ancora dopo tanti anni: come annunciare Dio, padre e madre di tenerezza di bontà, in un mondo di miserabili? Come dire che Dio è buono a chi vive una vita disperata? Quali conseguenze nascono da questa domanda?
Per annunciare che Dio è veramente padre di tutti, specialmente dei poveri, perché sia vero il nostro annuncio, bisogna cambiare questa realtà. Non a partire da Gramsci o da Marx. No! Occorre cambiare dal capitale simbolico del cristianesimo: tutti questi poveri sono allo stesso tempo poveri e credenti, poveri e cristiani. Come fare in modo che la fede cristiana, troppo a lungo sinonimo di rassegnazione, possa essere una fede di liberazione? Nei vangeli si racconta che Gesù libera le persone dalla fame, dal dolore, dalla morte. Occorre fare del contenuto della fede una forza di mobilitazione sociale, un atteggiamento per un cambio di liberazione.
Cosa significa in concreto?
Significa avviare un’azione che porti più libertà. È un processo pedagogico, non avviene dall’oggi al domani. Per questo la teologia della rivoluzione non è mai stata una teologia latinoamericana. È stata pensata in Europa.
Per noi liberazione è creare le condizioni perché, riconoscendosi carichi di una dignità che viene da Gesù Cristo, ogni uomo, insieme agli altri, crei le condizioni sociali, culturali, economiche e politiche perché possa essere specchio dell’immagine divina.
I poveri al centro, dunque
Certo. Dobbiamo costruire la liberazione a partire dai poveri. Occorre superare la visione paternalistica, assistenzialistica, di chi ha molto e aiuta coloro che non hanno niente. È importante condividere il pane. Però questo rischia di tenere l’altro sempre dipendente.
Occorre invece fare del povero soggetto della sua liberazione. I poveri sanno pensare, organizzarsi, muoversi. Non siamo noi a liberarli. Non è né la Chiesa né lo stato che liberano i poveri. Possono stare accanto a loro, camminare insieme, condividere il loro dolore, assumere la loro causa. Anche se tutto questo può procurare ferite e lacerazioni.
L’unica Chiesa che oggi nel mondo ha dei martiri è la Chiesa della liberazione: tantissimi vescovi, suore, laici, sacerdoti. Perché? Perché hanno assunto la posizione più difficile. Vista dai ricchi la loro era un’insurrezione, una tribolazione sociale che doveva essere evitata. Invece hanno dimenticato che l’opposto della povertà non è la ricchezza è la giustizia. Questo è il cuore della teologia della liberazione e il centro dell’insegnamento sociale della chiesa. In molti documenti – da Leone XIII in poi – la chiesa ha affermato che non vuole una società povera o una società ricca ma una società giusta e fraterna.
Ma se la Chiesa assume il punto di vista dei crocefissi della storia, non rischia di diventare una grande Ong, di ridurla ad essere solo un organizzazione umanitaria?
Può darsi che ci siano stati eccessi perché quando si vede a quale livello arriva la disumanizzazione qualcuno può aver assunto posizioni radicali. Ricordo quando portai Moltmann, il grande teologo della speranza, a visitare il Brasile. Al termine del lungo viaggio ci chiese perché non facevamo niente di fronte al peccato sociale, all’ingiustizia strutturata. Gli abbiamo spiegato che avevamo scelto la pedagogia di Paolo Freire che implica da sempre un coinvolgimento di tutti, un cambiamento, lento e graduale, delle menti e dei cuori.
Sì, può darsi, come ricorda mio fratello Clodovis, che qualcuno abbia posto l’accento più sulla liberazione che sulla teologia. Ma la stragrande maggioranza dei teologi, delle comunità di base, dei cristiani latinoamericani non dimenticano la radice, la fonte della liberazione che è il Vangelo e la prassi di Gesù. La fede cristiana in sé stessa è liberatrice e questo non perché i teologi lo dicono. La vita di Gesù ha sempre un contenuto di liberazione e tutti dobbiamo fare in modo che il vangelo non diventi un pozzo di acque morte ma sorgente di acque vive.
Alla fine della vita, ci ricordano i grandi mistici, saremo giudicati non se avremo fatto teologia o meno ma se avremo avuto un rapporto di cura e di amore con quanti hanno fame, hanno sete, sono colpiti dall’Aids. Saremo, cioè, giudicati dall’amore. Quello effettivo.
A ottant’anni, dopo che hai scritto decine di libri, ti sei impegnato in molte lotte, qual è la tua immagine di Dio?
Ti racconto una piccola storia che forse spiega quello che ho in mente. In Brasile c’era un grande antropologo che ha sempre difeso gli indios, cercato la giustizia e per questo ha vissuto anche in esilio. Era ateo e invidiava frei Betto e me. “Come mai due persone intelligenti come voi credono in Dio?” ci diceva sempre. Aveva il cancro e sapeva di morire. Un giorno ha voluto che andassi a trovarlo perché desiderava avere un’ultima grande discussione metafisica con me. Mi ha fatto leggere la sua autobiografia dove terminava, con amarezza, dicendo che tutto – la sua vita e le sue passioni, la sua lotta e il suo impegno – finiva ora nella polvere cosmica, nel niente. Mi chiese: “Tu che dici?”.
Gli ho risposto che questo non era vero. “C’è un’ultima istanza di amore e di accoglienza che ha la figura di una nonna (italiana, non tedesca!).” Gli ho detto: “Quando arriverai di là, non porterai con te alcun passaporto, passerai direttamente. La tua vita a difesa dei poveri ti impedirà di fermarti alla dogana, di pagare pesanti pedaggi. E quando giungerai, Dio ti aprirà le sue braccia dicendoti: “Finalmente sei arrivato. Ti aspettavo con tanta nostalgia. Perché sei giunto così tardi?” E comincerà a abbracciarti e baciarti con dolcezza. Perché Dio è madre e padre di infinita tenerezza”. Lui ha cominciato a piangere e ha perso i sensi.
Quando si è ripreso mi ha detto: “Questo che dici lo accetto, un Dio così lo voglio anch’io. Un Dio che mi ama per quello che sono. Ma, dimmi la verità: “Tutto questo è un’idea tua o
un’invenzione della Chiesa?” “Non è ne mia né della Chiesa ma è l’immagine che Dio ci ha consegnato nella figura di Gesù. Che si chiama suo padre ‘Abbà’, che parla di Dio come del padre che aspetta con ansia il figliol prodigo e gli corre incontro, che sceglie sempre la via della misericordia?’”.
La grande eredità che ci ha lasciato Gesù Cristo – e che i cristiani e le chiese non hanno ancora del tutto assimilato – è questa. Non dilapidiamola!