A cura di Daniele Rocchetti, delegato nazionale alla Vita Cristiana
La foto ha fatto il giro del mondo. Una foto dura, che fa male quando la si guarda: un piccolo corpo con il volto scavato, le ossa sporgenti. Era di una bambina di nome Amal. Sette anni, yemenita, morta, pochi giorni dopo lo scatto, di fame, in un campo profughi. Tyler Hicks, premio Pulitzer, ha spiegato quanto fosse stato “difficile” ma anche “importante” fotografare Amal. L’immagine, pubblicata dal New York Times, per il fotografo “riassume davvero come fame e malnutrizione siano diventate una tragedia nello Yemen”. Il quotidiano americano ha scritto che le immagini pubblicate avrebbero potuto “essere inquietanti come nulla abbiamo pubblicato prima. Ma c’è una ragione per cui abbiamo deciso di farlo. Abbiamo pensato che avremmo fatto un torto alle vittime di queste guerra se avessimo pubblicato immagini sterilizzate che non riflettono pienamente la loro sofferenza”.
Una guerra dimenticata
Della guerra in Yemen non parla nessuno. Immagino che molti lettori neanche sappiano dove si trova questo Paese. Arabia felix lo chiamavano i romani per la sua fertilità e ricchezza, terra di commerci dall’Oriente e dalla quale proveniva la Regina di Saba, oggi lembo statuale posto all’estremità meridionale della Penisola araba. Oggi vivono trenta milioni di persone in un territorio vasto quasi il doppio di quello italiano e che si trova in un’area strategica dal punto di vista geopolitico: 1.800 km di confine con l’Arabia Saudita e soprattutto paese che esercita il diretto controllo del flusso del Mar Rosso. Luogo di scontro tra potenze regionali, in primis Arabia Saudita e Iran, che hanno trasformato il territorio, riunito in unico Stato dal 1990, nel teatro della peggior crisi umanitaria del mondo. A farne le spese sono come al solito i civili. L’assedio da parte di nove paesi arabi sunniti, guidati dai wahabiti di Riad e sostenuti dagli Stati Uniti, nei confronti dei ribelli sciiti, vicini all’Iran, che dal 2015 controllano la capitale San’a sta provocando una mattanza. Blocco all’arrivo di qualsiasi rifornimento e medicinale, dieci milioni di yemeniti alla fame, epidemia di colera, tre milioni di profughi interni e 22 milioni di persone che hanno urgente bisogno di assistenza umanitaria. Dei 16.749 attacchi aerei compiuti negli ultimi tre anni, un’incursione su tre ha colpito siti non militari: infrastrutture pubbliche, mercati, case e veicoli civili. Le parti in conflitto non hanno risparmiato nemmeno gli ospedali: metà è attualmente inutilizzabile, ma anche le strutture ancora funzionanti soffrono della carenza di personale e attrezzature. Tutto questo, nel silenzio complice delle Nazioni Unite e dell’Occidente.
E noi che c’entriamo?
Una parte delle bombe che vengono sganciate sui civili provengono dall’Italia. Lo stabilimento è nel Sulcis, in Sardegna, nei comuni di Domusnovas e di Iglesias. Siamo nel sud dell’isola dove un tempo lavoro e futuro lo davano le miniere e le cave, oggi non più sfruttate, e le industrie chimiche e metallurgiche, ora spostate in territori dove la manodopera costa meno. Una delle zone più povere d’Italia, al penultimo posto nella classifica italiana per Pil pro capite. Qui si è impiantata l’azienda Rwm, parte del gruppo tedesco Rheinmetall defense, che fabbrica ed esporta armi in tutto il mondo. L’impianto è specializzato – come si evince dal sito ufficiale – nella produzione di “sistemi antimine, testate missilistiche, dispositivi elettronici con spolette”. In particolare, ordigni Mk-80. I cui frammenti, con tanto di codici identificativi – come documenta da anni con coraggio e determinazione “Avvenire” – sono stati ritrovati sul territorio yemenita dopo i bombardamenti della coalizione a guida saudita. Riad, del resto, è tra i clienti principali della Rwm Italia. Proprio da quest’ultima, nel 2016, scrive Lucia Capuzzi sul quotidiano della CEI “ha ricevuto un “mega-ordine” da 411 milioni di euro. A cui si sono sommate, nel periodo successivo, commesse più piccole, tutte già autorizzate. Le richieste hanno fatto aumentare di oltre il 50 per cento il fatturato dell’azienda in un biennio. I ricavi delle vendite sono passati da 48,1 milioni di euro nel 2015 a 90 milioni di euro. Nel contempo, però, si è innescata una “maratona produttiva”. L’impianto sardo lavora ormai 24 ore al giorno, sette giorni su sette. Nemmeno questo, però, sembra essere sufficiente per soddisfare la domanda. Da qui, l’idea di un’espansione: “40 milioni di investimenti per ampliare gli stabilimenti e aumentare la produzione”.
Un’alternativa coraggiosa
La questione è complessa e non bastano gli slogan. Eppure se vogliamo, almeno per una volta, evitare la retorica dei buoni sentimenti che hanno giusto il tempo del like, bisogna cominciare a chiedersi cosa si è disposti a fare e a investire per coniugare sviluppo di territorio e scelte di vita, non di morte. È quello che con coraggio sta facendo il Comitato, nato lo scorso anno, nel quale convergono focolarini e buddisti, esponenti della Caritas e Fondazione Finanza Etica, Pax Christi e comunità evangelica. “Riconversione della Rwm per la pace, il lavoro sostenibile, la riconversione dell’industria bellica, il disarmo”: è il nome che si sono dati.
Compito della politica. E nostro
Un percorso non facile il loro. Sanno che per i 200 dipendenti che assemblano bombe quel lavoro è fondamentale. Però non può esserlo a tutti i costi. Specie se la produzione è eticamente inaccettabile e totalmente incompatibile con la legislazione italiana che con la legge 185 del 1990 afferma che non possibile vendere armi ai Paesi in guerra. Stanno studiando a fondo il caso della Valsella, una delle aziende italiane con sede a Montichiari che fu, fin verso la fine degli anni Novanta, tra i più grandi produttori di mine antiuomo e ora è stata trasformata ad azienda nel settore automotive. Ancora una volta, è chiamata in gioco la politica. Speriamo risponda. Ma siamo chiamati in gioco anche noi. Noi che ci indigniamo per la foto di Amal e mettiamo like. E che subito dopo giriamo pagina. Pronti ad una nuova foto, a un nuovo like.