La gig economy – l’economia dei lavoretti – ha ormai numeri da settore economico “vero”: nel mondo le piattaforme digitali di lavoro sono migliaia e migliaia i lavoratori. Non solo di ragazzi che si destreggiano tra lavoro e studio o tra lavoro di transito e lavoro di destinazione: un’indagine dell’ILO (2016) dimostra che per il 40% di questi lavoratori il lavoretto è il lavoro principale e i bassi compensi i compensi principali, se non gli unici. In tutti i casi – giovani o non giovani, provvisori o definitivi – è bene intervenire per tutelare un lavoro e una persona.
Ma per intervenire con le giuste tutele inquadrando così il rapporto di lavoro, occorre stabilire la natura di questo contratto: i rider appartengono al lavoro subordinato o autonomo? La recente sentenza del tribunale di Torino stabilisce che è autonomo. Ma è effettivamente così? I “ciclisti” possono scegliere dove e quando operare? Il Jobs act, ad esempio, afferma che se le prestazioni sono soggette ad un coordinamento spazio-temporale, si tratta di lavoro subordinato. E quindi che fare? Il confine è labile, perché questa tipologia di organizzazione del lavoro rimette in discussione i tradizionali criteri che distinguono i due tipi di contratto: il tempo, la direzione, la formazione, lo spazio in azienda…
Le proposte che in questi anni sono maturate sono più di una. Non sono indifferenti, ovviamente: ma l’errore da evitare è ricondurre tutto alla sola questione monetaria. Vediamo – grosso modo – le tre possibili strade (senza considerare l’“ipotesi zero”, cioè lasciare che alla bisogna ci pensino i giudici). La prima strada è la più semplice, ed è quella di estendere a questi lavoratori contratti o discipline vigenti. Per esempio qualche mese fa le Acli proposero di estendere ai rider la disciplina in materia di somministrazione di lavoro, qualificando la piattaforma digitale quale agenzia di somministrazione e l’esercente che utilizza il servizio del lavoratore quale utilizzatore. Altra possibile soluzione, sempre in questa prima ipotesi, potrebbe essere quella di includere i rider in taluni CCNL, come la logistica, in relazione alla loro funzione “distributiva” per ciò che riguarda l’ambito della ristorazione, o dei trasporti per altre fattispecie. È un’ipotesi interessante e non complicata.
La seconda strada consiste invece nel superare la logica dei singoli contratti e individuare un nucleo di tutele minime, nel quale rientrerebbero il salario minimo (che sembra la strada preferita dal nuovo Ministro del Lavoro) ma anche alcuni diritti di base, come la protezione infortunistica e la copertura in caso di malattia, la libertà sindacale e/o di auto-organizzazione, ecc. (magari prendendo spunto da iniziative regolative di garanzia come quella della Carta dei diritti fondamentali del lavoro digitale nel contesto urbano, sottoscritta a Bologna solo pochi giorni fa). Anche questa è interessante perché aprirebbe a nuovi scenari, meno legati alla contrattualistica e più all’applicazione diretta di alcuni diritti economici.
La terza, del tutto nuova, è aprire un’altra strada. Questo percorso chiede di riconsiderare in termini più ampi la categoria del lavoro dipendente, oggi assimilata e del tutto sovrapponibile a quella di lavoro subordinato, che invece ne costituisce una parte, anche se la più consistente. Si tratta di ridefinire ciò che sancisce la “dipendenza” in un rapporto di lavoro, non più legandola ai soli processi produttivi interni all’organizzazione (luogo e orario di lavoro, in primo luogo). In questa grande fattispecie del lavoro dipendente rientrano i lavoratori subordinati, quelli parasubordinati e – ecco la new entry – quelli che potremmo definire “peri-subordinati”, cioè coloro che sono “attorno” al contratto di subordinazione. Non riducibili alle precedenti due categorie, i lavoratori perisubordinati condividono certamente con esse due elementi: la dipendenza economica e il sottostare al coordinamento del committente, dovendo conseguentemente essere destinatari di una serie di diritti minimi indipendentemente dalla tipologia di contratto che li lega al datore di lavoro.
Ecco quanto, dunque. Le tre ipotesi potrebbero dar luogo anche a tre diversi sistemi di tutela e quindi di relazioni industriali e quindi di welfare. Finora il welfare si è costruito attorno alla figura del lavoratore subordinato classico. Ma ora fatica a tenere. Si tratta di non dissociare questa riflessione da quella sul contratto. Perché la scelta potrebbe consegnarci modelli diversi di welfare. Un welfare pensato come un lavoratore subordinato è completo e ordinato, quello pensato come un rider è attualmente debole.