Il Vangelo si comprende dalla periferia. In dialogo con padre Arturo Sosa, Generale dei Gesuiti

Di Daniele Rocchetti delegato nazionale alla vita cristiana

Arturo Sosa, venezuelano, preposito generale della Compagnia di Gesù dal 14 ottobre 2016

È come ti immagini un gesuita. Colto, arguto, pronto alla battuta. In più è latinoamericano. Dunque, un rigore intellettuale accompagnato da una grande libertà che rende subito evidenti i segni del Vangelo. Così durante le due ore di colloquio a Borgo Santo Spirito, a Roma, sede della Curia generalizia della Compagnia di Gesù, mi è apparso padre Arturo Sosa, il trentunesimo Preposto Generale dei Gesuiti. Il primo non europeo, che proviene, come papa Bergoglio, dalla periferia. E come Francesco consapevole che proprio dalla periferia bisogna guardare per leggere il Vangelo e promuovere il cambiamento.

Lei ricorda spesso le sue radici. Nato e vissuto per gran parte della vita in Venezuela. Perché questa insistenza?
Credo sia importante non dimenticare il punto di vista con cui si guarda la realtà. In un’epoca come questa bisogna cominciare ad affermare che esistono diversi modi di vedere il mondo e di interpretare la realtà: in Europa, negli Stati Uniti, in America latina. Troppe volte noi concepiamo la conoscenza come qualcosa di neutrale, con una sua presunta oggettività. Non è vero. Credo, piuttosto, che, al contrario,  bisogna riconoscere come ogni forma di conoscenza nasca da una visione soggettiva delle cose. È controproducente non capire che pure nelle scienze (quelle sociali ma anche la matematica) ci sia un punto di partenza, un principio di scelta. Quel che è intellettualmente onesto dire (le scienze sociali ce lo insegnano molto bene) è che se io non rivelo da che punto di vista guardo e parto, inganno il mio prossimo. Dunque la conoscenza umana è una conoscenza parziale, sempre situata. E l’onestà sta proprio in questo: riconoscere da dove si parte.

Mentre parla mi vengono in mente come sono cambiate, nel tempo, le carte geografiche e i mappamondi…
Ha ragione. Nel vecchio modo di rappresentare il mondo, l’Europa era sempre disegnata più grande dell’Africa, al centro di tutto. Questo dipendeva da chi aveva disegnato la carta, da che punto di vista, politico, sociale, economico, culturale ed ideologico si poneva per guardare il pianeta. Le nuove carte mostrano un’altra prospettiva che vede e rappresenta diversamente la realtà. Detto ciò, io penso che il grande contributo del Concilio Vaticano II sia stato l’invito ad aprirsi al mondo, a riconoscere la diversità. Non solo si deve guardare il mondo cogliendo la pluralità (di sguardi e di teologie) ma anche capire che insieme al testo conta sempre il contesto. Dio si dice sempre storicamente situato. E questo è fortemente collegato al Vangelo

Perché?
Perché il Vangelo ci dice che Dio si è fatto uomo: è nato in un tempo, in un contesto, in un popolo determinato, in una famiglia determinata. Pensi al prologo del quarto Vangelo: Giovanni dice che nessuno ha mai visto Dio, solo il Figlio lo ha rivelato. È Gesù uomo che ci mostra il Padre, che ci mostra il volto di Dio. Dal punto di vista del Vangelo, dal punto di vista cristiano, noi non abbiamo nessun modo di capire Dio se non tramite Lui, l’uomo-Gesù, che si è incarnato in un determinato contesto storico. Dove inizia la vita di Gesù? In un piccolissimo popolo, dalla cultura specifica, oppresso, in quel momento, dalla dominazione romana. Lui, Gesù, ha guardato il mondo da quel particolare punto di vista ed, insieme, è stato capace di proporre un messaggio universale.

Anche la Chiesa ha perseguito questa strada, ma non è stato facile: gli apostoli, all’inizio, hanno fatto fatica a lasciare quello che erano per diventare cattolici, ovvero universali. Pare un paradosso, ma tutti i movimenti universali partono dal locale.

Come cambia il Vangelo alla luce dell’America Latina, un continente segnato anche da grandi ingiustizie?
Non cambia il Vangelo, cambia il tuo sguardo. Il Vangelo ti porta a uno sguardo diverso sulla realtà. Se cogliamo veramente il messaggio di Gesù, sappiamo che non si è incarnato astrattamente ma povero tra i poveri. Dunque, se vogliamo leggere il Vangelo con gli occhi di Gesù dobbiamo metterci dal punto di vista dei poveri.

Mi ricordo che, tempo fa, quando, in  Venezuela, lavoravo in un centro impegnato nel sociale, si rifletteva sul criterio per valutare la società. Si può farlo verificando, per esempio, se i servizi pubblici funzionano. Noi dicevamo invece: come è trattato un povero? Cosa capita ad un povero che si ammala? Viene curato o no? Se arriva in ospedale, trova attenzione oppure no? Se le risposte a queste domande sono positive, allora la società funziona. Vede, se mi capitasse di essere ricoverato  all’Ospedale di Santo Spirito qui di fronte è probabile che essendo Generale dei Gesuiti mi facciano saltare la coda e mi mettano in prima fila. Ma questo non accade ai poveri, agli ultimi. Sono loro che diventano misura delle nostre opere e delle nostre azioni.

Il Vangelo ha un concetto di centro e di periferia diverso dal nostro…
Nei testi degli Esercizi Spirituali di Sant’Ignazio esiste una bellissima meditazione, molto classica e che è molto usata: la contemplazione dell’incarnazione. Assumere la carne dell’uomo, come Gesù, in tutta la sua povertà. Incarnarsi in chi soffre. Questo è quel che è necessario fare.

La povertà come ha incrociato la sua vita?
Per me decisivo è stato proprio l’incontro con il Vangelo. Io non sono nato in una famiglia povera. La mia famiglia era ed è una famiglia con i mezzi per vivere. È stata la fede e la sensibilità cristiana che mi hanno spinto a interessarmi ai più poveri, agli emarginati. Un sentimento che, comunque, mi è stato trasmesso dalla mia stessa famiglia. Mia nonna, per esempio, chiedeva i vestiti usati alle sue amiche e li portava a chi vestiti non aveva. È questa sensibilità cristiana che mi ha portato ad aprire gli occhi alla realtà dei poveri, alla realtà concreta. Mi ha portato a voler conoscere, faccia a faccia, le persone. Andare a casa loro, essere ricevuto come un fratello. Quando intrattieni questo genere di relazioni capisci che è questo che, veramente, ti arricchisce e impari a comprendere cosa realmente capita nella società in cui vivi.

Mi pare che ciò sia quel che il Vangelo ci aiuta a creare: relazioni fraterne con persone che vivono condizioni difficili, di povertà. Pensi al dramma dell’emigrazione in Europa. Finché non si vede il migrante come un fratello, finché non si conosce il suo nome e la sua storia, si interpreta la sua presenza come una minaccia. Ma il giorno che ci si sforza di conoscerlo, di dare un nome  e un volto ad uno di questi ragazzi giovanissimi arrivati con un barcone, dopo chissà quanti chilometri e sacrifici, lo si incomincia a vedere come un figlio e la relazione muta. Si incomincia a comprendere cosa sia la migrazione, cosa significa, cosa vuol dire essere immigrato ed essere accolto. Questo è il grande movimento del Vangelo.