La vittoria di Macron, sostenuto da un movimento che si sta trasformando in partito con già molti tesserati, richiama il tema della formazione della classe dirigente attraverso i partiti. Non tutti coloro che governano le istituzioni pubbliche di un Paese si formano per mezzo dei partiti, in un Paese strutturato.
Ma in Italia, per tanti anni, è accaduto così. Ora i percorsi si differenziano: basta osservare le biografie di chi svolge incarichi pubblici per raccogliere indizi interessanti. Ma in attesa che anche in Italia si possa pensare a un percorso più razionale – che, per esempio, in Francia portò all’istituzione dell’Ena – prendiamo atto che comunque la maggior parte della classe dirigente nazionale passa (scrivere “si forma” appare ormai eccessivo) attraverso i partiti.
I tre compiti essenziali dei partiti politici sono l’elaborazione di proposte come mediazione dei valori e degli interessi in campo, la raccolta del consenso, la formazione di una classe dirigente preparata. Qui ci limitiamo a dire una cosa sul terzo compito.
La società è complessa e frammentata, non risponde più a criteri di sicurezza e di ragionevole prevedibilità: la razionalizzazione cede il passo all’incertezza e all’imprevedibilità. Lo stesso accade per le logiche che presiedono l’evoluzione delle carriere in ambito pubblico: impreviste, non necessariamente graduali.
Fino a pochi anni fa, si nasceva politicamente come volontari in attività legate al consenso, poi si sperimentavano semplici attività politiche per arrivare all’elezione in qualche assise o alla nomina in qualche ente, per un tempo di vita non esattamente breve. Si trattava di traiettorie razionali, capaci di produrre una certa “competenza politica” e di consolidare un consenso depositato nel partito o nel gruppo. Il consenso è come un bene economico, se ben amministrato produce risultati certi, non è volatile come una quotazione di borsa.
Oggi le cose sono cambiate e le carriere assumono logiche differenti: ci troviamo uomini politici in incarichi prestigiosi, provenienti da percorsi assai diversi e con traiettorie imprevedibili. E il consenso si muove, si materializza di colpo in una proposta – grazie a un’efficace campagna comunicativa – per consumarsi rapidamente e trasferirsi in una nuova proposta, capace di condensare più cose.
È come se si fosse passati da una meccanica della rappresentanza, fondata sui equilibri e forze di elementi solidi e concatenati secondo un disegno razionale e ordinato, a una nuvola della rappresentanza, il cui esito deriva dalla capacità di condensare timori, desideri, interessi, valori e linguaggi attorno a una proposta capace di raccogliere un consenso qui e ora. In questo secondo modo, gli elementi di base diventano immateriali perché composti da segnali, informazioni, opinioni, frequenze che si tramutano in… eventi, più che in processi, in percorsi.
È vero che la complessità del reale rende più difficili le sintesi e la messa in campo di processi dove i risultati sono ottenibili solo nel medio-lungo periodo. Ma un Paese avrebbe il dovere di farlo, non preoccupandosi solo della prossima scadenza elettorale.
Oggi i luoghi di una elaborazione sull’evoluzione politica sono più di uno ma rischiano di operare in solitudine, proponendosi come scuole dalle quali “prestare” classe dirigente alle istituzioni pubbliche, con l’indiscusso vantaggio di non dover mantenere una classe politica troppo a lungo, ma anche col rischio di partire ogni volta da zero o di agire in continua emergenza.