Deficit di cittadinanza
In Parlamento è al vaglio la nuova legge sulla cittadinanza, con l’avvio dell’iter in Senato. Questa circostanza, passata in rassegna anche in un nostro recente webinar, offre l’opportunità per qualche riflessione di più ampio respiro.
Essere dotati di cittadinanza vuol dire essere titolari di diritti e doveri in quanto appartenenti a una comunità. Sicuramente significa godere dei diritti civili, ovvero dell’insieme delle libertà e delle prerogative garantite al cittadino dallo Stato a cui esso appartiene. Queste non riguardano solo il singolo, ma possono estendersi alle organizzazioni di cui il cittadino fa parte (per esempio, le associazioni politiche). Possono configurarsi, quindi, come tutele basilari garantite dalla legge, che contemplano i diritti politici attivi e passivi.
I diritti politici sono quei diritti che uno Stato riconosce ai propri cittadini, perché essi possano partecipare attivamente alla vita politica e alla formazione delle decisioni pubbliche. Tali diritti rappresentano l’espressione della sovranità popolare.
A quelli già citati si aggiungono poi i diritti sociali, economici e culturali, che, seppur definiti spesso in modi differenti, sono in senso lato i diritti dei cittadini a determinate prestazioni il cui esercizio sia tale da garantire la partecipazione effettiva all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.
Ora, se si guarda la cittadinanza dalla prospettiva della disuguaglianza, ci si accorge che esistono delle diversità di status che sono state trascurate e che hanno dato luogo a categorie svantaggiate.
In questo senso la condizione degli immigrati è quella dei cittadini incompiuti: la «differenza» di cui sono portatori li esclude dalla cittadinanza. Di fatto, questo mancato riconoscimento non consente una società di eguali, che prescinda dalle differenze. Questo è il senso con cui le Acli si sono battute nella campagna “L’Italia sono anch’io”, con la quale si è tentato di portare a compimento per tutti – anche per gli immigrati – i diritti di cittadinanza.
In altri termini, ciò che si cerca di fare è superare la condizione palesemente ingiusta rappresentata dall’espressione coniata per gli immigrati residenti di cittadinanza sperata, in quanto non in atto e, semmai, rimandata nel tempo. Stanti così le cose, infatti, c’è un lungo periodo in cui lo straniero lavora, risiede e vive nel nostro Paese senza godere dello stesso status degli altri cittadini. E qui si colloca una palese contraddizione: si assegnano alcuni diritti ma non quelli politici (per cui gli immigrati non prendono parte alla vita democratica, non rappresentano i loro interessi, non formano l’opinione democratica); però si chiede loro di contribuire al benessere collettivo con il loro lavoro/guadagno, rendendo evidente la convenienza per i Paesi di accoglienza ad accogliere la presenza straniera senza concedere la pienezza dei diritti civili e sociali.
La presenza degli immigrati è fondamentale per il “Vecchio” (è proprio il caso di dirlo!) Continente. Secondo studi recenti (Bloomberg) l’Europa avrebbe bisogno di 42 milioni di nuovi europei entro il 2020 e di oltre 250 milioni di europei in più nel 2060. I 42 milioni di europei servirebbero subito per tenere in equilibrio il sistema pensionistico.
Oggi in media in Europa ci sono 4 persone in età lavorativa (15-64 anni) per ogni pensionato; nel 2020 ce ne saranno solo 2. Ancora peggio in Germania, dove ci saranno 24 milioni di pensionati contro poco più di 41 milioni di adulti; in Spagna 15 milioni di over 65 a carico di meno di 25 milioni di lavoratori; in Italia nel 2050 20 milioni di pensionati peseranno su meno di 38 milioni di persone in età lavorativa (dati dell’Unione europea). Servono più persone che paghino i contributi ed è più facile che a fare questo siano gli stranieri (che non tolgono lavoro perché gli studi mostrano che gli immigrati tendono ad occupare i posti di lavoro che chi è nato in Occidente preferisce abbandonare), che per lo più emigrano in giovane età (20-40 anni) spesso con figli piccoli al seguito. E hanno anche tassi di attività molto elevati e spesso spirito di iniziativa. Tra il 2008 e il 2014 in Italia i titolari d’impresa stranieri sono aumentati del 31,5% (soprattutto nel commercio, che pesa per circa il 40% di tutte le imprese straniere, e nelle costruzioni, per il 26%), mentre le aziende guidate da italiani diminuivano del 10,6% (dati Censis). Sul loro lavoro pagano le tasse, tanto che senza questo contributo il nostro governo avrebbe il problema di trovare 7 miliardi di euro per la legge di Stabilità (pari al valore di Irpef pagato dagli stranieri nel 2014).
Né gravano più di tanto sullo Stato sociale: le tasse pagate dagli stranieri superano di gran lunga i benefici che ricevono dal welfare. La spesa pubblica che li riguarda è esigua: in Europa il 2% dei fondi per l’assistenza sociale, l’1,3% dei sussidi di disoccupazione, lo 0,8% della spesa pensionistica (0,2% in Italia).
In Europa il contributo alla ricchezza degli immigrati vale lo 0,3% del Pil, secondo le stime Ocse. L’immigrazione, quindi, conviene. In termini di costi, come ha di recente rilevato il quotidiano La Repubblica, al nostro Paese è pesato molto di più in paragone la perdita di 200 mila giovani (molti di più dei richiedenti asilo in Italia), molto istruiti e produttivi, che avrebbero contribuito alla crescita dell’economia italiana e che sono andati via tra il 2010 e il 2014; dal 1992 a oggi nel resto d’Europa sono emigrati 873mila italiani. Questo è stato un costo ben superiore a quello sostenuto per i rifugiati.
Se è vero che gli immigrati ci servono, infondata è comunque la convinzione di una loro invasione. In Europa gli immigrati sono il 7% della popolazione. A settembre 2015 i migranti sbarcati in Italia sono stati 132.071, il 10% in meno rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Nei primi nove mesi del 2015 le 42.801 domande di asilo hanno portato solo nel 23,6% dei casi all’attribuzione della protezione umanitaria, nel 15,8% di quella sussidiaria e nel 5,5% al riconoscimento dello status di rifugiato. Erano 70.652 gli stranieri irregolari rintracciati in Italia nel 2008, ma la cifra si è ridotta a 30.906 nel 2014 e sono stati 23.112 nei primi nove mesi del 2015. I rimpatri hanno avuto un picco nel 2011 (25.163), seguito da un netto calo fino a oggi: 10.559 tra gennaio e settembre del 2015 (dati Censis).
La cittadinanza come viatico
L’immigrazione, oggi come un tempo, rappresenta una ricchezza. Ma per far avverare questa affermazione servono politiche di immigrazione serie e lungimiranti e vere politiche di integrazione; ovviamente non è un compito da poco e non ci sono soluzioni facili: occorre puntare su opportunità di lavoro, incentivi, previsione e gestione dei flussi, per governare strategicamente il fenomeno come una risorsa per la crescita.
E serve il riconoscimento della cittadinanza, anche come viatico per appassionare gli immigrati al Paese ospitante. Il Censis ci informa che «gli stranieri in Italia inseguono una traiettoria di crescita verso la condizione di ceto medio, differenziandosi così dalle situazioni di concentrazione etnica e disagio sociale che caratterizzano le banlieue parigine o le innercities londinesi, dove l’Islam radicale diventa il veicolo del rancore delle seconde e terze generazioni per una promessa tradita di ascesa sociale».
Bisogna estendere questo processo inclusivo. L’integrazione comporta dei «costi» ma per il bene comune va promossa una politica di cittadinanza che stabilisca diritti e doveri in un patto di reciproco riconoscimento tra italiani e stranieri nella prospettiva che essi diventino cittadini. Un patto sociale che produca benessere per tutti. Ed evitare che le differenze etniche e culturali diventino moltiplicatori di emarginazione.
Malgrado resistenze e ovvie difficoltà spesso cavalcate strumentalmente dalla politica, si fa largo nella popolazione l’idea di accogliere le persone che fuggono da guerre e miseria ed una fisiologia dei comportamenti quotidiani che tende ad integrare e che va certamente accompagnata dall’alto, consentendo l’incontro, nella convinzione che ciò fornisca elementi per l’arricchimento di entrambe le parti e la crescita comune. Magari in progetti condivisi legati al territorio, visto che proprio lo «ius soli» si va proponendo come il criterio privilegiato nell’attribuire la cittadinanza.
In questo senso “abitare” un luogo assume un significato diverso, fondato sull’esercizio di una capacità comunicativa e di connessione, che non solo ci abitua a coabitare e a coesistere, ma rappresenta anche un’opportunità senza precedenti di sviluppo e progresso sociale. Trasformare in ricchezza e vantaggio la contiguità fisica tra le differenze spetta anche ad organizzazioni come la nostra: le Acli possono, come già hanno fatto con la Campagna, mettersi alla guida di questo processo, promuovendo un grande laboratorio che evidenzi le potenzialità del dialogo e della collaborazione tra le etnie, favorendo processi partecipativi e di progettualità sociale, che assicurano benefici ma chiamano anche tutti alla responsabilità.
Serve far intendere tutto questo come una risorsa e proporre anche nuovi modi per interpretare lo sviluppo attraverso la propria storia e l’attenzione alle persone e valorizzandone le capacità, che diventa prospettiva di futuro. Serve impegnarci per rimuovere gli ostacoli all’integrazione e per tradurla in fatti politici reali… a cominciare dalla cittadinanza.
Serve, in sostanza, una legge sulla cittadinanza, che dia risposta al bisogno di riconoscimento, assegnando diritti e doveri e non scatenando reazioni di risentimento e conflitto per forme di esclusione. Una legge che assegni la cittadinanza su basi di legalità, partecipazione e uguale accesso, consentendo alle persone di collocarsi in uno spazio, assumendo la propria parte di responsabilità nella sua cura e nel suo sviluppo. Così si amplierà la solidarietà e la coesione sociale.