C’è ormai un diffuso accordo sul fatto che il peculiare patrimonio naturalistico di cui dispone l’Italia sia una componente fondamentale del benessere dei cittadini, che possono godere, oltre che della sua bellezza, anche dei particolari beni e servizi che da esso derivano, spesso assai vantaggiosi.
«La protezione dell’ambiente – ci ricorda l’Istat nel Rapporto Bes 2015 – rappresenta una chiave determinante e lungimirante per le scelte del sistema Paese ed anche dei singoli cittadini. Le azioni volte oggi ad uno sviluppo ecosostenibile possono condurre, domani, al miglioramento del benessere delle persone. Le azioni di tutela dell’ambiente, di gestione sostenibile delle risorse naturali e di lotta ai cambiamenti climatici, con un piano di sviluppo legato alle energie rinnovabili e all’efficienza energetica, possono aggiungere valore e proteggere i nostri territori, sostenere la società e l’economia».
Se ciò non bastasse, papa Francesco nell’enciclica Laudato si’, ha chiarito senza possibilità di errore l’importanza di tutelare l’ambiente naturale, che poi è anche ambiente sociale, ricordato che la Terra «protesta per il male che le provochiamo, a causa dell’uso irresponsabile e dell’abuso dei beni che Dio ha posto in lei» (2). Di conseguenza, «la sfida urgente di proteggere la nostra casa comune comprende la preoccupazione di unire tutta la famiglia umana nella ricerca di uno sviluppo sostenibile e integrale» (13).
Di recente tali preoccupazioni hanno sembrato trovare un parziale accoglimento nella cosiddetta “Cop 21”, ovvero la Conferenza di Parigi sui cambiamenti climatici, svoltasi nella capitale francese lo scorso dicembre. La conferenza era chiamata a raggiungere, per la prima volta in oltre 20 anni di mediazione da parte delle Nazioni Unite, un accordo vincolante e universale sul clima, accettato da tutte le nazioni.
Ne è scaturito l’Accordo di Parigi, un patto globale sulla riduzione dei cambiamenti climatici che ha ottenuto il consenso dei rappresentanti delle 196 parti partecipanti. Il testo contiene l’impegno dei Paesi a contenere l’incremento del riscaldamento globale a meno di 2 gradi Celsius e un’emissione antropica di gas serra pari a zero da raggiungere durante la seconda metà del XXI secolo.
Benché frutto di un elaborato negoziato, l’accordo presenta alcuni punti deboli, non solo perché diventerà giuridicamente vincolante solo se ratificato da almeno 55 Paesi che insieme rappresentino almeno il 55% delle emissioni globali di gas serra (l’accordo deve essere firmato dalle parti a New York tra aprile 2016 e aprile 2017); ma anche perché ogni Paese ratificante sarà tenuto a fissare un obiettivo di riduzione delle emissioni, ma il quantitativo sarà volontario e non esistono meccanismi impositivi se gli obiettivi non vengono rispettati.
Ma allora, se l’ambiente è da difendere per il bene comune, e da esso possono provenire anche vantaggi materiali, perché ci troviamo a discutere di trivelle, che forniscono scarso approvvigionamento e da fonti dichiarate superate? C’è qualcosa che non torna: non è che ci saranno di mezzo gli interessi forti?
A giudicare dal caso italiano si direbbe di sì. L’inchiesta partita dalla Procura di Potenza – composta da un filone che riguarda lo smaltimento dei rifiuti e le emissioni nocive e dal filone che concerne gli appalti per l’estrazione del petrolio – sembrerebbe dimostrare proprio questo. “Siamo di fronte a una organizzazione criminale di stampo mafioso, organizzata su base imprenditoriale”, ha commentato il Procuratore nazionale antimafia, Franco Roberti.
In entrambi i filoni d’inchiesta si tratta di concessioni per l’estrazione del petrolio in cui sono state aggirate le norme producendo un danno ambientale e ai cittadini; in entrambi i casi si nota quel connubio perverso tra interessi economici e potere politico. Fino a coinvolgere ministri della Repubblica in relazione a emendamenti da inserire nella Legge di stabilità per semplificare la realizzazione di “opere strumentali alle infrastrutture energetiche strategiche”, che dovevano agevolare gli imprenditori coinvolti nel caso “Tempa Rossa”. Tutto per aumentare i profitti, i vantaggi personali, le clientele.
Torniamo alla domanda: perché si intende continuare a estrarre petrolio e gas naturale in Italia (e, quindi, prorogare la durata delle concessioni), nonostante la scarsità di giacimenti, l’irraggiungibilità dell’autonomia energetica e, soprattutto, il prezzo internazionale molto basso?
Alla base ci sarebbero ragioni economiche e fiscali: infatti, per estrarre occorre pagare delle royalties (in Italia tra il 7% e il 10%, ben più alte altrove), che producono un’entrata per lo Stato. Tuttavia, esistono delle vantaggiose franchigie per le imprese nel caso in cui si estragga meno di un certo quantitativo o se le produzioni siano in regime di permesso di ricerca, condizioni garantite da una lunga durata di vita utile dei giacimenti, inserita nel decreto Sblocca Italia e poi nella Legge di stabilità.
Il dubbio legittimo che gli interessi siano protetti più dell’ambiente e della salute dei cittadini, del resto, permane se ci si sposta nello scenario europeo. Infatti, gli interessi delle multinazionali dell’energia ampiamente tutelati anche in Europa se entrasse in vigore il Trattato transatlantico sul commercio e gli investimenti (Ttip), che la Ue sta negoziando con gli Stati Uniti, a dimostrazione di una certa schizofrenia dei governi, che firmano l’Accordo di Parigi e poi rischiano di smentirlo con i contenuti di altri trattati.
Il Ttip contiene un capitolo sull’energia che potrebbe consentire l’importazione di petrolio e gas naturale estratto dagli Usa con il fracking, metodo bandito in alcuni Paesi a causa dei rischi ambientali e sismici che comporta; senza contare che anche il settore delle rinnovabili ne risentirebbe, dal momento che il trattato rimuoverebbe le misure che impongono alle aziende di reperire (almeno in una certa percentuale) beni e servizi da filiere territoriali. Inoltre, con il Ttip in vigore, potrebbe essere molto difficile, se non impossibile, negare alle compagnie estrattive un permesso per ragioni ambientali o di sicurezza. Insomma, normare per tutelare l’interesse pubblico, la salute dei cittadini e la qualità dell’ambiente risulterebbe arduo da parte degli Stati, preoccupati di essere citati nell’arbitrato internazionali ed essere costretti a pagare lauti risarcimenti agli investitori privati.
Alla luce di tutto ciò, bisogna concludere che probabilmente le priorità di tanta parte degli Italiani sono oggi antitetiche a quelle selezionate dall’esecutivo. Per questo la società civile ha fatto sentire la propria voce, proponendo il referendum del 17 aprile, che diventa un’occasione da non perdere, sia per contribuire a riavviare un dibattito sull’esigenza di pensare a un modello energetico pulito, basato sulle energie rinnovabili, sia per contrastare il potere degli interessi economici dei più forti a danno dei semplici cittadini. E per ricordare a tutti che lo strumento referendario è un momento importante della vita democratica di un Paese.