Di Daniele Rocchetti, delegato nazionale alla Vita cristiana
Siamo a Newcastle. Un padre, una madre, un ragazzo e una ragazzina conducono ogni giorno una vita di impegno e di sacrifici con il piccolo sogno di comperare una casa e di vivere un’esistenza più dignitosa.
Un normale imbroglio
È lo sfondo del nuovo film di Kean Loach, da qualche settimane anche nelle sale di Bergamo. Ricky, il padre, accetta di lavorare come corriere freelance per una di quelle aziende che consegnano pacchi in tempi ridottissimi; non deve firmare un contratto, non ci sarà un’assunzione perché “Tu non lavori per noi, lavori con noi. Non vieni assunto ma vieni integrato”. A Ricky viene venduta l’illusione di essere autonomo e parte di un sistema, quasi imprenditore di se stesso. “Io ho fatto tutto: il muratore, l’idraulico..tutto! Vorrei lavorare in proprio ora, essere il mio capo!”
La realtà sarà ben diversa. Anzi, il ricatto inesorabile sta proprio lì, gravare di responsabilità il singolo, e avvinghiarlo in una ragnatela di inesorabili doveri, di trappole lavorative ed esistenziali e di diritti negati, anche i più elementari, compreso quello di urinare, visto che sarà costretto a tenere una bottiglietta di plastica vuota per i suoi bisogni da fare sul furgoncino. Perché tutto ha un costo, tutto si paga, anche fermarsi.
Il giorno che chiederà qualche giorno di permesso Ricky si sentirà rispondere: “Vuoi saltare un giorno? Non puoi. Gli altri autisti che me l’hanno chiesto credi non abbiano problemi? Chi ha la sorella che ha avuto un infarto, chi deve operarsi; un altro ha sua figlia che ha tentato il suicidio. Alla fine c’è sempre un problema. Ma non puoi fermarti. Mai. Ai clienti non importa se ti addormenti al volante o se prendi in pieno un autobus. Gli importa il prezzo che paga, e se l’oggetto arriva in tempo”. Quando dei teppisti gli spaccano la faccia, un paio di costole e forse gli perforano un polmone, per lui ci sarà una penale di 1000 sterline per gli oggetti che gli hanno rubato.
Le mappe del Novecento non bastano più
Il sogno si trasforma in incubo. La vita di Ricky diventa una lotta forzata contro il tempo, ogni corriere della sua ditta deve consegnare i pacchi in un tempo prestabilito e controllato da un apparecchio tecnologico che fa da telefono, navigatore, sensore e strumento di controllo dei movimenti e dei comportamenti. La loro vita, chiusi dentro il furgone e trascinati nel traffico da un posto all’altro, è quella del perfetto automa in una nuova “catena di montaggio” (il fordismo del XXI secolo), nell’alienazione della generazione 2.0.
Abby, sua moglie, è un’infermiera-badante che dalla mattina alla sera assiste anziani e disabili senza fermarsi mai, senza tregua ma con grande dignità e sincero sentimento di affetto per le persone che di cui si prende cura. In poco tempo si trovano avvolti in una spirale di compiti da assolvere, tempo da inseguire, fatica da sopportare e problemi fra loro; un gorgo senza speranza. In questo vortice Ricky ed Abby perderanno se stessi, diventeranno genitori assenti, persone irascibili, violente, diverse da ciò che erano.
La protesta dei figli esprimerà questo cambiamento, la necessità assoluta di fare tornare tutto come prima, di recuperare, con ogni mezzo, il padre che avevano prima e la situazione di prima; da qui il titolo, Sorry we missed you, ci sei mancato. Che, peraltro, è la frase (“ci spiace, non ti abbiamo trovato”) che i corrieri lasciano quando non trovano il destinatario.
È finita la grande fabbrica. E le garanzie?
Con il solito urtante realismo il grande regista inglese racconta di come stia cambiando il lavoro. Un cambiamento profondo che va guardato anzitutto e studiato. Le mappe del Novecento non bastano più. Basti solo un elemento, tra i molti: pur rimanendo un Paese a vocazione manifatturiera, l’Italia sta sempre più progredendo nel processo di terziarizzazione dell’economia: la quota di occupati del terziario è passata dal 60% del 1990 al 76% del 2019, raggiungendo i livelli della Germania mentre gli occupati nell’industria sono appena il 25 per cento. È dunque finita la grande fabbrica. È finita la rappresentazione del lavoro come l’abbiamo a lungo conosciuta. Pensiamo ai nuovi lavori, all’avvento delle nuove tecnologie e al sottobosco complesso che rende molti giovani precari e lavoratori “fragili o non stabili”. Spesso rassegnati a buste paga più leggere, minori protezioni, diritti non pienamente soddisfatti.
Fare i conti con il presente è il primo e fondamentale passo. Insieme alla domanda che risuona forte guardando le vite di molte persone e tra questi tantissimi giovani che abbiamo attorno: chi tutela i non tutelati? Chi garantisce i non garantiti?