Il 22 aprile scorso, in occasione della Giornata della Terra, si è tenuta, presso la sede delle Nazioni Unite di New York, la cerimonia della firma dell’accordo di Parigi sul clima. Per la prima volta nella storia dell’Onu, oltre 170 Paesi firmano un accordo internazionale il primo giorno in cui viene proposto.
Nonostante i cambiamenti climatici costituiscano la maggiore e più condivisa emergenza del nostro tempo, nessuno si aspettava una risposta così compatta, dalle Isole Fiji (che sono tra le prime 15 nazioni ad aver già ratificato l’Accordo) all’Afghanistan, dal Burkina Faso alla Mongolia a Papua New Guinea…
C’è chi parla di accordo storico, chi di record, chi di una “prima volta” straordinaria. E chi cerca di moderare gli entusiasmi ricordando che per l’effettiva entrata in vigore dell’Accordo è necessaria la ratifica da parte di almeno 55 Paesi che coprano almeno il 55% delle emissioni globali e che all’appello mancano i grandi inquinatori. Certo, la ratifica contestuale alla firma dipende dalle procedure e dagli ordinamenti nazionali di ciascun Paese. L’Unione Europea, ad esempio, rischia di essere in ritardo con il processo di ratificazione, dovendo attendere che si esprimano i 29 parlamenti nazionali.
La firma è cosa diversa dalla ratificazione, ai sensi del diritto internazionale. Ma già rappresenta un passo vincolante: chi firma infatti si obbliga a non porre in essere attività contrarie all’Accordo.
Straordinaria la convergenza dei Paesi alla cerimonia di sottoscrizione dell’Accordo di Parigi sul clima, anche se da taluni considerata a “buon mercato”. Ma straordinario anche l’appello lanciato da 270 leader religiosi – “uniti per sollecitare tutti i capi di Stato a firmare e ratificare tempestivamente l’accordo di Parigi” – e consegnato il 20 aprile scorso al presidente dell’assemblea generale delle Nazioni Unite Mogens Lykketoft.
“La cura per la Terra è una nostra comune responsabilità”, con queste parole si apre il documento che porta la firma, tra gli altri, di mons. Marcelo Sánchez Sorondo, cancelliere della Pontificia Accademie delle Scienze e delle Scienze sociali, del rabbino capo Shear Yashuv Cohen, dell’imam Maulana Syed Muhammad Abdul Khabir Azad, dell’arcivescovo anglicano sudafricano Desmond Tutu e del segretario generale del Consiglio Mondiale delle Chiese (Wcc), Olav Fykse Tveit.
In esso i rappresentanti religiosi ricordano che “ognuno di noi ha una responsabilità morale di agire, come così efficacemente affermato da Papa Francesco nell’Enciclica “Laudato si’” e nelle dichiarazioni sui cambiamenti climatici da buddisti, cristiani, indù, ebrei, musulmani, sikh, e altri leader religiosi”. Il pianeta infatti, si ricorda, “ha già superato i livelli di sicurezza per i gas serra. E a meno che questi livelli non vengano rapidamente ridotti, si rischia di creare impatti irreversibili per centinaia di milioni di vite”.
«Questo primo risultato – commenta Alfredo Cucciniello, responsabile Cittadinanza attiva della Presidenza nazionale Acli – deve spingerci a mantenere alta e costante l’attenzione alla tutela dell’ambiente, ma soprattutto a farci parte attiva nella costruzione di nuovi e più sostenibili modelli di sviluppo coinvolgendo in questo processo un numero sempre maggiore di persone. Perché – come è scritto dell’appello lanciato dai Leader religiosi – “I cambiamenti climatici costituiscono per la nostra famiglia umana la possibilità di intraprendere un percorso di rinnovamento spirituale con una maggiore consapevolezza ed azione ecologica. Dobbiamo riflettere sulla vera natura della nostra interrelazione con la Terra. Non si tratta di una risorsa da sfruttare secondo la nostra volontà ma di un’eredità sacra…”».